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Trump e le dottrine di politica estera

Questo articolo è pubblicato sul numero 3-2025 di Aspenia

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Anche questa volta, proprio come all’inizio del suo primo mandato, Donald Trump ha catturato l’attenzione del mondo. Nel 2016 è arrivato alla Casa Bianca principalmente grazie al rifiuto delle consuetudini e delle fissazioni dell’establishment politico americano. Sebbene molti fossero a conoscenza delle critiche espresse durante la sua carriera al modo in cui Washington ha gestito gli affari globali, l’audacia e la sicurezza con cui ha abbandonato le vecchie ortodossie e applicato le sue idee all’inizio di questo mandato hanno scioccato gli osservatori di tutto il mondo. Cercare di individuare un disegno coerente tra i dazi del Liberation Day, le pretese su Canada e Groenlandia, il rifiuto del nation building e il bombardamento dei siti nucleari iraniani è un’impresa scoraggiante.

Trump ha portato alla Casa Bianca un coraggio e un carisma unici, ma per alcuni aspetti riflette gli stessi impulsi che hanno animato la politica estera americana sin dal suo esordio. La maggior parte dei presidenti americani di successo ha bilanciato la propria politica estera tra quattro scuole di pensiero in competizione, quelle che ho descritto in Special Providence[1]. Non si tratta tanto di teorie formali di scienza politica, quanto di stati d’animo e atteggiamenti riguardo all’organizzazione della società americana e alle implicazioni che questa comporta per la politica estera del paese.

L’influenza di quelle scuole di pensiero è perdurata nel tempo, mentre gli Stati Uniti si separavano dall’impero britannico, sviluppavano un modus vivendi con l’ex sovrano imperiale e, infine, lo superavano per diventare il fulcro del sistema internazionale. Oggi il sistema è sottoposto a un’enorme pressione, e Trump sta aggiornando e combinando elementi derivati da quelle scuole per cercare di riaffermare il dominio americano.

 

IL PRAGMATISMO DI HAMILTON. Dalla seconda guerra mondiale in poi, la grande strategia degli Stati Uniti è stata plasmata soprattutto da due di quelle scuole di pensiero, entrambe focalizzate sulla creazione di un sistema internazionale stabile con gli Stati Uniti al centro. La prima è quella degli hamiltoniani convinti che fosse nell’interesse degli Stati Uniti subentrare al Regno Unito nel ruolo di “giroscopio dell’ordine mondiale” – è la definizione data dal consigliere del presidente Woodrow Wilson, Edward House, durante la prima guerra mondiale – ponendo le basi finanziarie e di sicurezza per una ripresa dell’economia globale dopo la seconda guerra mondiale, contenendo l’Unione Sovietica e promuovendo gli interessi americani. Quando l’Unione Sovietica crollò, gli hamiltoniani raddoppiarono gli sforzi per creare un ordine globale liberale, inteso principalmente in termini economici.

Alexander Hamilton cercò di adattare le caratteristiche salienti del sistema britannico agli Stati Uniti e per questo motivo incontrò una profonda ostilità da parte di anglofobi come Thomas Jefferson. Mentre cercava in tutto il mondo modelli che la repubblica americana fresca di indipendenza potesse emulare, Hamilton si rese conto che l’essenza del dominio britannico, adattata alle condizioni americane, offriva al suo paese la migliore opportunità per raggiungere la prosperità e la forza necessarie a stabilizzare la propria politica interna. Un esecutivo potente, un sistema finanziario solido sostenuto da una banca centrale indipendente e una rigorosa gestione del debito pubblico, un mercato nazionale integrato sostenuto dallo stato di diritto e da investimenti governativi intelligenti nelle infrastrutture: tutti questi elementi, uniti alle abbondanti risorse naturali e allo spirito imprenditoriale degli Stati Uniti, avrebbero permesso di sviluppare un’economia nazionale forte, dinamica e tecnologicamente avanzata.

L’approccio hamiltoniano non è un sistema rigido o una camicia di forza ideologica. È un modo pragmatico di pensare al rapporto tra le esigenze del capitalismo di mercato, le richieste della politica interna e le realtà del sistema internazionale. Propone un governo federale forte ma limitato, che favorisca lo sviluppo di un fiorente settore imprenditoriale interno e promuova la sicurezza e il commercio degli Stati Uniti all’estero. Secondo tale approccio, la politica interna dovrebbe essere fondata su un sistema finanziario solido e su un’adesione convinta, ma non rigida o dottrinaria, a un’economia orientata al mercato. La politica estera dovrebbe essere basata su un mix assennato di politica dell’equilibrio di potere, tutela degli interessi commerciali e difesa dei valori americani.

In oltre due secoli di cambiamenti a volte drammatici, tre idee sono state al centro della visione hamiltoniana: la centralità del commercio nella società americana, l’importanza di una forte identità nazionale e del patriottismo e la necessità di un realismo illuminato negli affari esteri. Il segretario di Stato Henry Clay all’inizio del XIX secolo, e in seguito Abraham Lincoln e Theodore Roosevelt, hanno tutti affermato di aderire a questa tradizione. Da Washington in poi, passando per i segretari di Stato Dean Acheson e George Shultz nell’era moderna, molti dei principali leader del paese si sono basati sulle idee di Hamilton per plasmare il successo degli Stati Uniti in patria e all’estero.

 

I VALORI WILSONIANI. Nel frattempo, i wilsoniani credevano che anche la creazione di un ordine liberale globale fosse di vitale interesse per gli Stati Uniti, ma la concepivano più in termini di valori che di economia. Considerando i regimi corrotti e autoritari esteri una delle principali cause di conflitto e violenza, i wilsoniani cercavano la pace attraverso la promozione dei diritti umani, di forme di governo democratiche e dello stato di diritto. Nelle ultime fasi della guerra fredda, una parte di questo schieramento, quella degli istituzionalisti liberali, si è concentrata sulla promozione delle istituzioni internazionali e su un’integrazione globale sempre più stretta, mentre un altro ramo, quello dei neoconservatori, ha ritenuto che un’agenda liberale potesse essere portata avanti meglio attraverso gli sforzi unilaterali di Washington (o in collaborazione volontaria con partner che la pensavano allo stesso modo).

La scuola di pensiero wilsoniana è quella con cui gli europei hanno maggiore familiarità. Non fu Woodrow Wilson a concepire molte delle idee della scuola, ma fu lui a combinarle e metterle in atto. Più di un secolo prima che Wilson proponesse di istituire la Società delle Nazioni, per esempio, lo zar Alessandro I di Russia aveva espresso una visione simile durante il Congresso di Vienna: un sistema internazionale che si basasse sul consenso morale, sostenuto da un concerto di potenze che operassero a partire da un insieme condiviso di idee sulla sovranità legittima. Il wilsonianesimo è una soluzione tipicamente europea a un problema altrettanto europeo: lo spettro della guerra tra avversari quasi o del tutto simili.

Wilson non riuscì a ottenere il sostegno interno necessario per attuare la sua visione, ma le sue idee divennero un’ispirazione e una guida per leader nazionali, diplomatici, attivisti e intellettuali di tutto il mondo. I leader americani succedutisi durante e dopo la seconda guerra mondiale gettarono le basi di quello che speravano sarebbe diventato un ordine mondiale wilsoniano, in cui le relazioni internazionali sarebbero state guidate dai principi enunciati nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e condotte secondo le regole stabilite da istituzioni come le Nazioni Unite, la Corte internazionale di Giustizia e l’Organizzazione mondiale del Commercio.

La realizzazione di questa visione fu complicata dalla guerra fredda, ma “il mondo libero” (così allora gli americani chiamavano i paesi non comunisti) continuò a svilupparsi secondo linee wilsoniane. Quando il muro di Berlino cadde, nel 1989, sembrò che fosse finalmente arrivato il momento di stabilire un ordine mondiale wilsoniano. L’ex impero sovietico poteva essere ricostruito secondo idee wilsoniane e l’Occidente poteva abbracciare i principi wilsoniani in modo più coerente, ora che la minaccia sovietica era scomparsa. Autodeterminazione, stato di diritto tra e all’interno dei paesi, economia liberale e tutela dei diritti umani: il “nuovo ordine mondiale” a cui hanno lavorato sia George H. W. Bush che le due amministrazioni Clinton era molto wilsoniano.

 

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Oggi, tuttavia, il dato più importante nella politica mondiale è il fallimento di quel nobile sforzo. La prossima fase della storia mondiale non si dipanerà lungo direttrici wilsoniane. Le nazioni della terra continueranno a cercare qualche tipo di ordine politico, perché devono farlo. E gli attivisti per i diritti umani, assieme ad altri, continueranno a lavorare per raggiungere i loro obiettivi. Ma il sogno di un ordine universale fondato sul diritto, che assicuri la pace tra i paesi e la democrazia al loro interno, occuperà sempre meno l’agenda dei leader mondiali. Gli ideali wilsoniani non scompariranno e il pensiero wilsoniano continuerà a influenzare le politiche estere degli Stati Uniti, ma difficilmente potremo presto assistere a un ritorno dei giorni felici del post-guerra fredda, quando i presidenti americani organizzavano le loro politiche estere attorno ai principi dell’internazionalismo liberale.

 

L’ASCESA DELLA SCUOLA JEFFERSONIANA. Una delle scuole oggi più in ascesa, quella jeffersoniana, critica i wilsoniani per un eccessivo imperialismo. Il Partito democratico mescola spesso idee wilsoniane e jeffersoniane, ma le idee jeffersoniane sono bipartisan. I libertari di orientamento jeffersoniano tendono a essere scettici verso gli attuali impegni e obiettivi globali dell’America, uno scetticismo derivato dai classici argomenti del “governo limitato”, e hanno una certa influenza sull’amministrazione Trump. I jeffersoniani di sinistra, invece, basano la loro opposizione alle “cricche” delle banche centrali e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio sulla convinzione, tipicamente jeffersoniana, che le élite abbiano approfittato delle organizzazioni e degli accordi internazionali per imporre al popolo americano un progetto elitario favorevole alle grandi multinazionali. Queste due correnti jeffersoniane incarnano la maggiore approssimazione che gli Stati Uniti abbiano mai sperimentato all’isolazionismo puro. La seconda guerra mondiale le ha screditate per decenni, ma i fallimenti americani in Medio Oriente e la minaccia di conflitti nucleari le hanno riportate in auge.

Esistono però anche jeffersoniani non populisti che hanno avuto un’influenza importante – e perlopiù positiva – sulla politica estera americana. Prima della seconda guerra mondiale, i principali esponenti del pensiero jeffersoniano ritenevano che gli Stati Uniti dovessero seguire la visione strategica di John Quincy Adams: godere dei frutti del sistema economico e politico incentrato sulla Gran Bretagna senza pagarne i costi, e allo stesso tempo accusare Londra di fare tutto nel modo sbagliato. Quando la Gran Bretagna iniziò a indebolirsi e non fu più in grado di reggere l’ordine mondiale, la Grande depressione, la seconda guerra mondiale e la successiva espansione sovietica in Europa li portarono a pensare che gli Stati Uniti dovessero assumere, loro malgrado, un ruolo analogo a quello che era stato della Gran Bretagna: il ruolo di fulcro del sistema mondiale. Hamiltoniani e wilsoniani la vedevano come una grande opportunità; per i jeffersoniani più ortodossi, invece, era un compito ingrato e pericoloso, ma inevitabile.

Jeffersoniani come John Quincy Adams e Henry Kissinger non erano particolarmente felici del fatto che gli Stati Uniti avessero interessi strategici vitali che li legavano al resto del mondo in modi complessi e a volte frustranti o persino pericolosi. Diversamente dagli hamiltoniani e dai wilsoniani, che tendono a vedere la politica estera con grande speranza e guardano con entusiasmo a nuovi progetti di costruzione dell’ordine economico, legale e democratico, i jeffersoniani nutrono serie perplessità sui costi e le conseguenze di simili iniziative. Cercano invece di costruire architetture strategiche in grado di proteggere i vasti – e spesso globali – interessi nazionali al minor rischio e costo possibile.

 

JACKSON, IL PRIMO POPULISTA. L’altra scuola che ha accolto con entusiasmo l’ascesa di Trump è quella jacksoniana, i cui membri sono spesso gli “elettori indecisi” della politica estera statunitense. Il populismo tipicamente americano incarnato da Trump affonda le proprie radici nel pensiero e nella cultura del primo presidente populista del paese, Andrew Jackson. Per i jacksoniani – il nocciolo duro della base più appassionata di Trump – gli Stati Uniti non sono un’entità politica definita da un insieme di principi illuministi e votata a una missione universale. Sono lo Stato-nazione del popolo americano, i cui compiti principali devono essere rivolti all’interno del paese.

Per i jacksoniani, l’eccezionalismo americano non deriva dall’attrattiva universale delle idee statunitensi, né dalla loro vocazione unica a trasformare il mondo, ma dal peculiare impegno del paese verso l’uguaglianza e la dignità dei cittadini americani. Il ruolo del governo federale, secondo questa visione, è realizzare il destino della nazione garantendo la sicurezza fisica e il benessere economico degli americani in patria e farlo interferendo il meno possibile con le libertà individuali che rendono unico questo paese.

Il populismo jacksoniano si interessa solo a tratti di politica estera, così come di politica in generale. Alcuni eventi, però, scatenano improvvisi e intensi, per quanto brevi, momenti di partecipazione politica. Uno di questi è la guerra: quando un nemico attacca, i jacksoniani si mobilitano immediatamente in difesa della nazione.

Analogamente, il più potente fattore di mobilitazione dei jacksoniani in politica interna è la percezione di un attacco proveniente da nemici interni: élite corrotte o immigrati di diverse provenienze. I jacksoniani temono che il governo federale possa essere preso in ostaggio da forze malevole che vogliono trasformare l’essenza stessa degli Stati Uniti. Non sono ossessionati dalla corruzione, che considerano inevitabile in politica, ma si infiammano di fronte a quella che definiscono “perversione”: quando i politici cercano di usare il governo per opprimere i cittadini anziché per proteggerli. Negli ultimi anni, molti di loro hanno sentito che stava accadendo proprio questo, che le élite potenti – compresi gli apparati di entrambi i partiti – erano coalizzate contro di loro.

Al momento, i jacksoniani guardano con scetticismo alla politica statunitense di impegno globale e di costruzione di un ordine liberale, ma non tanto per il desiderio di un’alternativa ideologica, quanto per sfiducia nei confronti di chi prende le decisioni di politica estera. Si oppongono ai recenti accordi commerciali non tanto perché siano in grado di comprendere i dettagli e le conseguenze di questi negoziati estremamente complessi ma perché si sono persuasi che i negoziatori non abbiano davvero a cuore gli interessi degli Stati Uniti. Per loro, la leadership è soprattutto una questione di fiducia: se credono in un leader o in un movimento politico, sono disposti ad accettare anche decisioni controintuitive o difficili.

 

TRUMP, ALLA RICERCA DI UN EQUILIBRIO. Il secondo mandato di Trump ha confuso e sconcertato molti osservatori perché il presidente sta cercando un equilibrio tra queste fazioni concorrenti. Pochi wilsoniani hanno votato per lui, dato il suo scarso entusiasmo nel promuovere i diritti umani all’estero o nel vincolare la potenza americana ai trattati internazionali (nemmeno a quelli firmati da lui stesso durante il primo mandato). Ma non può permettersi di alienarsi hamiltoniani, jacksoniani o jeffersoniani, né di dare eccessivo spazio, all’interno della sua amministrazione, a uno solo di questi gruppi.

I tentennamenti della sua politica nei confronti di Israele e dell’Ucraina illustrano bene il suo tentativo di mantenere un equilibrio fra le varie componenti della sua coalizione. I jeffersoniani vorrebbero evitare di offrire sostegno ad alleati in difficoltà perché temono di essere trascinati in nuovi conflitti. Gli hamiltoniani vorrebbero evitare che un avversario arrivi a dominare regioni strategiche come l’Europa o il Medio Oriente, ma temono impegni troppo onerosi e l’instabilità economica che una guerra potrebbe generare. I jacksoniani, dal canto loro, preferiscono sostenere la parte vincente e temono di trovarsi a combattere guerre altrui.

Il bombardamento dei siti nucleari iraniani è stato il compito più semplice da gestire, sia politicamente sia militarmente, ma non è stato privo di difficoltà. Per i jacksoniani Israele è l’alleato modello: ha trionfato in più occasioni contro ogni previsione e in genere si occupa dei propri affari contando su un sostegno minimo da parte americana. Disprezzano invece l’Iran e i gruppi terroristici che sostiene, perché convinti che combattano in modo disonorevole. Gli hamiltoniani, da parte loro, si innervosiscono quando si combatte vicino ai centri petroliferi e alle rotte commerciali del Medio Oriente, ma sono a favore di attacchi circoscritti a installazioni iraniane problematiche. Il breve raid aereo, che ha avuto ben poche ripercussioni, ha entusiasmato i jacksoniani e soddisfatto gli hamiltoniani, ma ha allarmato i jeffersoniani, spaventati dall’idea di un’altra guerra nel teatro mediorientale. Alcuni di loro si sono trasformati nei più accaniti critici di Trump.

L’Ucraina rappresenta per Trump una sfida ben più complicata, per vari motivi. Qualsiasi contatto con Kiev rievoca lo spettro dell’impeachment del primo mandato e delle accuse di collusione con la Russia. Inoltre, è divisiva per il suo partito. Gli hamiltoniani sono seriamente preoccupati dalla più grande guerra sul suolo europeo dal 1945 e vorrebbero fermare le minacce russe agli alleati dell’America. I jeffersoniani vedono il conflitto come l’ennesima conseguenza del malaccorto imperialismo statunitense. I jacksoniani, infine, condividono con i jeffersoniani la domanda di fondo: perché non lasciare che l’Europa se la cavi da sola? Trump sta tentando di trovare la giusta combinazione di pressioni e concessioni che permetta di negoziare la fine della guerra e, al contempo, cerca di fare accordi su terre rare e altre risorse strategiche per convincere i suoi scettici sostenitori che quello sforzo valga la pena di essere fatto.

Tenere insieme questa coalizione metterà alla prova le notevoli doti di Trump. I presidenti repubblicani di maggior successo, da Lincoln in poi, hanno costruito i loro risultati migliori sui punti di convergenza tra hamiltoniani e jacksoniani. Rinnovare quel consenso per affrontare le sfide economiche, militari, politiche e tecnologiche poste da Cina, Iran, Corea del Nord e Russia è un’impresa che metterebbe a dura prova qualunque leader, e farlo senza alienarsi ulteriormente i jeffersoniani potrebbe essere impossibile. Se Trump dovesse riuscire nell’impresa, dimostrerebbe di essere uno dei presidenti più influenti della storia americana.

 

 


[1] Walter Russell Mead, Special Providence: American foreign policy and how it changed the world, Alfred A. Knopf, 2001.

 

 


Questo articolo è pubblicato sul numero 3-2025 di Aspenia.