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La politica estera “auto-transattiva” di Donald Trump: hard power e soft power a somma zero

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Il vertice multilaterale tenutosi in Cina a inizio settembre, in cui il Presidente Xi Jinping ha ospitato i presidenti di Russia, India, Pakistan, Corea del Nord (assieme agli altri membri della Shanghai Cooperation Organization, SCO) non deve sorprendere, ma deve certamente far riflettere. La SCO è nata nel 2001 con la partecipazione di quattro ex-Repubbliche sovietiche centroasiatiche, oltre a Cina e Russia, e ha avuto alterne fortune senza mai consolidarsi in una vera alleanza degna di questo nome – nulla a che fare con la NATO, insomma, né con il vecchio Patto di Varsavia.

E’ vero però che questo foro multilaterale ha ora acquisito un peso maggiore soprattutto con la presenza al recente summit dell’India, rappresentata dal presidente Narendra Modi: anche perché negli ultimi anni Delhi era stata oggetto di molta attenzione e di notevoli sforzi diplomatici da parte di varie successive amministrazioni americane (a partire da G.W. Bush) nel tentativo di instaurare un rapporto di pragmatica collaborazione in alcuni settori, con un evidente obiettivo di contenimento della Cina. Arriviamo così al contesto in cui si è tenuto l’incontro della SCO nella città di Tianjin e poi la grande parata militare a Pechino del 3 settembre (anniversario della vittoria cinese sul Giappone, che con una qualche ironia della storia non si deve però all’Esercito di Liberazione Nazionale ma al “fronte unito” che riuniva le forze nazionaliste di Chiang Kai-shek e quelle comuniste di Mao Zedong).

Xi Jinping alla parata militare del 3 settembe, con i suoi ospiti internazionali – in primo piano, Vladimir Putin e Kim Jong-un.

 

Lo sfoggio di tecnologia militare e la capacità di attrarre governi assai diversi tra loro in una sorta di allineamento anti-occidentale è in perfetta coerenza con le ambizioni dichiarate del Presidente cinese (leader unico del Partito unico). Il suo Paese, ormai al centro di molte filiere globali, deve però ora risolvere un grave problema con il suo modello di sviluppo – essendosi esaurito quello della crescita a doppia cifra degli anni ’80-’90.

Ciò che colpisce maggiormente, tuttavia, è cosa gli Stati Uniti sono in grado di contrapporre alla prevedibile e semplice retorica impiegata da Xi e Putin, in particolare, affiancati da Modi e perfino dal nordcoreano Kim Jong-Un, uscito per l’occasione del suo quasi totale isolamento (che era stato spezzato in effetti già dall’incontro storico proprio con Trump nell’estate 2019 lungo il 38° parallelo). Le due autocrazie, legate formalmente da un’alleanza “senza limiti”, cercano naturalmente di presentarsi come la maggiore alternativa a ciò che chiamano il dominio occidentale su scala globale, portando se possibile con sé il Paese oggi più popoloso del mondo, appunto l’India. E lo fanno puntando sulla presunta stabilità che le loro leadership illiberali possono offrire, assieme a reali opportunità economiche, legate in gran parte alla Repubblica Popolare in quanto vero gigante planetario.

 

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A fronte di questo tentativo, l’America di Trump ha risposto principalmente con un post sul canale mediatico preferito del Presidente (che ha peraltro fondato), Truth Social, in cui si sono accusati apertamente i Paesi suddetti di “cospirare” contro gli USA. Il termine stesso appare piuttosto sfocato, visto che una cospirazione allude a un’intesa segreta o comunque dietro le quinte, mentre qui abbiamo assistito ad un evento tutto mediatico e pensato per essere pubblico – proprio come quello allestito da Trump medesimo ad Anchorage in agosto a beneficio di Vladimir Putin (compresi il tappeto rosso e l’applauso all’arrivo, a favore di telecamere). Gli eventi avvengono in un contesto di breve periodo in cui il resto del mondo ha cominciato obiettivamente a considerare Washington un fattore di sistematica incertezza, soprattutto per il continuo ricorso a dazi e tariffe come strumento privilegiato di azione internazionale.

Se si prendono poi in considerazione i due conflitti armati in corso su cui Trump ha già speso una notevole dose di capitale politico, cioè Ucraina e Gaza, si deve notare che entrambi hanno registrato un’intensificazione della violenza militare in questo 2025, soprattutto a spese delle popolazioni civili. Ciò è avvenuto nonostante i frequenti interventi diretti del Presidente americano finalizzati a fermare i combattimenti, interventi che tuttavia (come hanno rimarcato moltissimi osservatori ed esperti) non hanno fornito alcun ancoraggio politico per favorire un cessate-il-fuoco. E non è una carenza da poco, come si insegna in qualsiasi corso universitario sulle tecniche del negoziato.

 

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Per restare alla regione mediorientale, anche il focolaio iraniano non sembra essere stato spento dal massiccio intervento militare americano del giugno scorso, né in chiave di programma nucleare clandestino (probabilmente oggi in accelerazione, sottotraccia e sottoterra) né di ambizioni destabilizzanti nell’area da parte del regime di Teheran. Le capacità militari iraniane hanno certamente subito un duro colpo, e questo limita l’influenza politica internazionale del Paese nel breve termine, ma non è affatto chiaro che si sia realizzata una svolta profonda negli equilibri regionali – almeno non ancora. E indubbiamente manca un qualsiasi quadro negoziale in cui semmai inserire e consolidare i possibili vantaggi militari acquisiti dall’accoppiata USA-Israele negli ultimi mesi. Intanto, si è avuta spesso la netta sensazione, dal gennaio scorso, che la politica mediorientale di Washington sia guidata soltanto da considerazioni contingenti, potremmo dire opportunistiche, piuttosto che da una visione d’insieme – al di là di un’alleanza strettissima con la monarchia saudita.

Alla luce di questi sviluppi complessivi, sembra davvero che sia stia palesando un rapido calo del soft power americano, a lungo preconizzato ma ora accelerato dagli eventi recenti: non un tracollo drammatico e improvviso, ma comunque un declino tangibile. Ciò si è concretizzato a Tianjin e Pechino, nelle oscillazioni dell’India, da una parte, e nella mancanza di qualsiasi reazione congiunta in chiave transatlantica, dall’altra.

Sotto presidenti come Obama e Biden, Washington avrebbe quasi certamente richiamato a raccolta le democrazie alleate, invece di lamentare in totale e unilaterale isolamento una “cospirazione” sino-russa. Un riflesso, per inciso, quello della denuncia di una “cospirazione” in caso di avversità politica, che è usato spesso e volentieri anche in politica interna: al di là di ogni valutazione di merito, una reazione del genere non aiuta certo a riflettere sui propri errori, né a emendarli. E sui due conflitti in corso che sfuggono testardamente al controllo americano – Ucraina e Gaza – sarebbe stato logico aspettarsi un maggiore coordinamento con il G7, la UE, la NATO, che invece sono visti come fattori marginali o perfino ostativi dall’amministrazione Trump.

Si può addirittura fare un’ipotesi più radicale, che andrà meglio verificata nel prossimo futuro: si potrebbe essere generata per gli Stati Uniti una dinamica a somma zero tra hard power e soft power, per cui quanto più Washington ricorre a forme di coercizione e minaccia, tanto più erode le proprie capacità di attrazione e persuasione. E’ un pericolo che emerge dagli effetti indesiderati o collaterali della forte pressione esercitata da Trump, a intermittenza, su tre Paesi (che hanno anche in qualche modo una valenza simbolica): Canada, Danimarca (per la questione Groenlandia), Panama.

Mentre, come abbiamo ricordato, le relazioni con Cina, India, Russia, restano a dir poco problematiche, molte energie sono state dedicate per imporre la propria volontà su un vicino e strettissimo partner commerciale (il Canada), su un piccolo Paese-membro della NATO (la Danimarca), e su un ancora più piccolo Paese centro-americano (Panama) che simboleggia il ruolo degli USA come potenza marittima globale ma anche garante della libertà di navigazione – per non parlare dell’eco nei rapporti di Washington con l’America Latina nel suo insieme.

Insomma, queste iniziative diplomatiche della Casa Bianca finiscono per danneggiare il soft power americano in cambio di un auspicato rafforzamento della capacità coercitiva della superpotenza; ma c’è da chiedersi se ce n’era davvero bisogno e se il gioco valga la candela. Perfino in chiave esclusivamente interna (la famosa base elettorale “MAGA” del Presidente), siamo certi che una “vittoria” contro Ottawa, Copenaghen o Panama City sia così decisiva? Soprattutto se nel frattempo Pechino, Mosca e forse anche Delhi “cospirano” contro gli USA, e a Bruxelles non ci si fida affatto di Washington.

Alla prova dell’efficacia, insomma, la diplomazia “transattiva” non sembra più performante del vecchio e tanto bistrattato multilateralismo, che peraltro era di fatto uno schema a raggiera con al centro quasi sempre gli Stati Uniti.

A ben guardare, ancor più che nel suo primo mandato presidenziale, Donald Trump sta adottando un metodo transattivo estremo, al punto che lo si può perfino definire “auto-transattivo”.

La strana natura “auto-transattiva” del metodo-Trump deriva dal fatto che, come ha dichiarato in alcune occasioni lo stesso Presidente, “I set the deal” – cioè è lui in ultima analisi a definire i termini di ciascuna intesa temporanea, che però rimane soltanto tale (temporanea) visto che ogni eventuale compromesso non si trasforma realmente in un accordo tecnico con precise clausole di applicazione. E ciò vale anche al di fuori del settore commerciale. In tal senso, come tutte le controparti negoziali di Washington hanno già ben compreso, il “deal” è semplicemente una base di partenza per il prossimo negoziato che sarà comunque il Presidente Trump ad avviare, ritenendo inadeguate o insufficienti le condizioni precedentemente concordate. Come si vede, lo schema è strutturalmente instabile e soprattutto autoreferenziale, perché l’iniziativa è sempre e comunque nelle mani del Capo dell’Esecutivo a Washington.

Un ulteriore aspetto autoreferenziale della politica estera così impostata deriva dalla fortissima personalizzazione della diplomazia americana a cui stiamo assistendo. E’ probabile che ben pochi osservatori internazionali saprebbero citare il nome dell’Assistente alla Sicurezza Nazionale dei primi 100 giorni (Mike Waltz) dell’attuale Presidente USA, e certamente pochissimi lo hanno sentito fare dichiarazioni prima di essere licenziato, sebbene si tratti di un ruolo ricoperto in passato da personaggi come McGeorge Bundy, Henry Kissinger, Zbigniew Bzrezinski, Colin Powell, Condoleezza Rice. Lo stesso Segretario di Stato, Marco Rubio (che oggi ricopre anche la carica di Waltz ad interim) è decisamente in ombra, come l’intero Dipartimento da lui guidato, visto che nessun funzionario ha davvero un mandato per rappresentare il Presidente e ognuno di loro sa perfettamente di poter essere smentito e pubblicamente contraddetto in qualsiasi momento.

In questo quadro, la politica estera transattiva risplende soltanto della luce del Comandante in Capo. Nel bene e nel male, nei successi e negli insuccessi.