international analysis and commentary

La proposta araba per Gaza

52

Il summit del Cairo del 4 marzo è stata solo una cosa: la risposta araba alla provocazione del presidente statunitense Trump sul futuro di Gaza. Per rispondere sul tavolo negoziale al suo progetto di ricostruzione immobiliare – che prevede la deportation dei cittadini della Striscia – i Paesi della Lega Araba hanno lanciato una controproposta che scongiuri il trasferimento forzato dei palestinesi. Il termine deportation è stato infatti al centro di un ampio dibattito politico e semantico, anche perché percepito dal pubblico arabo come l’annuncio di una nuova Nakba – ovvero la “catastrofe” causata dall’espulsione dei palestinesi dai territori assegnati allo Stato di Israele nel 1948. Uno scenario allarmante, sul quale il presidente Trump alla fine ha fatto un parziale passo indietro, negando di aver auspicato uno sfollamento forzato di palestinesi.

Tendopoli a Gaza, dove il 90% degli edifici è distrutto o danneggiato

 

Il piano elaborato lungo il Nilo è un ambizioso progetto da 53 miliardi di dollari che si estende su cinque anni. Prevede una fase di recupero, della durata di sei mesi e del costo di tre miliardi di dollari, dedicata alla rimozione delle macerie – che invece richiederebbe fino a 15 anni secondo stime ONU-  allo sminamento e alla fornitura di alloggi temporanei per più di 1,5 milioni di persone. Seguirebbero due fasi di ricostruzione, la prima riguardante le infrastrutture essenziali e gli alloggi permanenti, e la seconda, le altre infrastrutture, tra cui un porto commerciale e un aeroporto.

Primo nodo politico da sciogliere, l’amministrazione della Striscia. Il piano prevede un periodo di transizione in mano a un comitato di tecnocrati palestinesi a cui dovrebbe poi subentrare l’Autorità nazionale palestinese, Anp. A Egitto e Giordania spetterebbe il compito di addestrare nuove forze di sicurezza palestinesi, senza Hamas. Si fa infine riferimento alla possibilità di una non meglio precisata presenza internazionale. Questa prospettiva non è gradita alle forze della resistenza palestinese, né ad Hamas che non si vede riconosciuto alcun ruolo politico e militare nel futuro della Striscia. Pare invece un assist all’impopolare Anp, che proprio in concomitanza con il summit del Cairo, dopo quasi vent’anni si è detta pronta a organizzare elezioni presidenziali e legislative nei territori occupati. Una promessa alla quale quasi nessuno crede, visto che dopo le ultime votazioni del 2006, un ritorno alle urne è stato annunciato più volte, ma non si è mai realizzato.

Altro nodo da sciogliere riguarda l’eventuale finanziamento del piano. Secondo fonti diplomatiche consultate al Cairo, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti sarebbero pronti a investire solo se ci fossero garanzie sul disarmo di Hamas e la sua marginalizzazione. Un punto questo discusso, ma non inserito, nel comunicato finale, perché giudicato divisivo tra gli stati coinvolti. Giordania ed Egitto hanno infatti una posizione più moderata. Consci del sostegno di cui ancora gode il movimento islamista dentro la Striscia e tra le forze di resistenza palestinesi, credono che sia impossibile pensare a un disarmo immediato. Sostengono piuttosto un approccio step by step per fare prevalere l’anima politica di Hamas su quella militare.

 

Leggi anche: Saudi Arabia’s only good option: Reframing Trump’s Middle East “riviera”

 

Al Cairo si sarebbe anche discusso, solo a porte chiuse, dell’eventuale esilio dei leader di Hamas. Il Qatar che da sempre ospita elementi apicali della base del movimento sarebbe d’accordo, mentre la Turchia sarebbe meno disponibile. Le stesse considerazioni sono probabilmente state fatte da Tunisia e Algeria che in passato hanno accolto rappresentanti dell’Organizzazione per la Liberazione Palestinese. Ma da Tunisi e da Algeri, al Cairo sono andati solo i relativi ministri degli Esteri, senza poter dunque assumere impegni precisi.

Trovare un compromesso attorno a tali questioni è stato impossibile. Pertanto al Cairo, gli stati della Lega Araba pur mostrando unità contro il piano di Trump, vidimato da Israele, hanno fatto venire a galle le divisioni interne, causate dalle diverse ambizioni delle agende nazionali. Questo ha ridotto le possibilità di successo della proposta araba, il cui futuro è tutto da costruire.

Hamas ha inviato segnali contrastanti al riguardo. Ufficialmente, ha ringraziato gli sforzi arabi per scongiurare un nuovo esodo di palestinesi. Analisti che da tempo seguono l’evoluzione del movimento spiegano che se da un lato Hamas ha dimostrato di essere disposto a discutere la smilitarizzazione come obiettivo finale di un processo di pace, dall’altro è intenzionato a non permettere che diventi un prerequisito del processo.

Israele ha bocciato immediatamente il piano, perché non contiene una condanna della strage del 7 ottobre e non definisce Hamas una “entità terroristica”. Questa posizione è condivisa da Washington. La rottura del cessate il fuoco da parte israeliana il 17 marzo, naturalmente, è la più esplicita delle dichiarazioni contrarie.

Tale netto posizionamento statunitense non fa che inasprire la relazione tra Stati Uniti ed Egitto. Il lancio del piano di Trump su Gaza aveva già spinto il presidente egiziano Al Sisi a posticipare la sua visita alla Casa Bianca da febbraio a metà marzo, ma ora questa è rimandata a data da definire. Per tutta risposta il presidente statunitense ha minacciato un taglio ai sussidi che arrivano al Cairo dal 1979.

 

Leggi anche: Il piano di Trump per Gaza e il diritto internazionale

 

Da segnalare, che proprio mentre Trump ha bocciato il piano del Cairo, la Casa Bianca ha annunciato l’inizio di trattative dirette tra Hamas e la nuova amministrazione Usa, per il rilascio degli ostaggi israeliani. Anche se già precedenti presidenti, ad esempio Obama, avevano aperto canali di dialogo con Hamas, l’iniziativa di Trump è inedita e sarà importante capire che sbocchi avrà e quali conseguenze potrebbe portare su altri dossier del conflitto israelo-palestinese.

A favore del piano del Cairo si sono invece schierati Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna che lo hanno definito realistico, ribadendo però che non c’è spazio per Hamas nel futuro della Striscia. La proposta nata in Egitto viene considerata da questi Paesi un punto di partenza.

La diplomazia araba sta ora continuando a lavorare sul piano, anche all’interno dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica, per tornare a discuterne a maggio, al prossimo summit della Lega Araba a Baghdad. E’ anche nell’aria un viaggio – per ora non ancora annunciato né calendarizzato – di una delegazione di ministri di Paesi arabi e musulmani in Europa per raccogliere ulteriore sostegno alla proposta egiziana. Gli stessi potrebbero poi volare negli Stati Uniti in una missione simile, ma molto più difficile da portare a casa.