La generazione che è mancata in Palestina
Ma dove sono i palestinesi? In questo momento, in West Bank tra checkpoint e barriere di altro tipo c’è una media di un ostacolo al chilometro. La Strada 60, che va da sud a nord, ed è lunga 180 chilometri, ha 129 ostacoli, mentre la Strada 505, che va da est a ovest, ha 61 ostacoli su 57 chilometri. Dal 7 Ottobre, qui è tutto bloccato. E l’economia è crollata. I palestinesi hanno perso il 90% del potere d’acquisto. Intanto, nei campi per rifugiati non è più questione di raid, ormai, di jeep e carrarmati: ma di bombardamenti. Mentre a Gaza Donald Trump propone di trasferire tutti in Indonesia. Eppure, non c’è segno di rivolta.
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Né di alternativa. L’89enne Mahmoud Abbas, presidente dal 2005 con un mandato scaduto nel 2009, governa da solo. Per decreti. Senza più un parlamento. Né troppa lucidità. Ma dalla sua generazione di anziani politici palestinesi, i veterani della Prima Intifada, si passa direttamente ai quindicenni con l’M16. Che non combattono per vincere: ma per morire. Dove è finita la generazione di mezzo? Dove sono i quarantenni, i trentenni? Perché nei territori dove doveva nascere lo Stato palestinese non è nata alla fine la società civile capace di produrre una qualche alternativa?
Sotto l’Occupazione israeliana, certo, non è facile. In base all’Ordine Militare 101, in vigore dal 1967, più di dieci palestinesi insieme sono una manifestazione non autorizzata. Stessero anche al bar a guardare il Liverpool di Salah. Tra retate, arresti, confische, demolizioni, la vita, qui, sembra un report di Amnesty International. Eppure, per gli attivisti* questo non è che lo sfondo. Quello che più influenza, e limita, l’impegno politico, ti dicono, la capacità di organizzazione e mobilitazione, sta altrove: sta negli (ormai lontani) Accordi di Oslo (1993 e 1995), nelle ONG, e nel contesto internazionale. Sta più all’estero che qui.
La generazione di mezzo è una generazione sconfitta: ma in un certo senso, non da Israele. L’Occupazione, intanto, non è una sola: ha varie forme, varie caratteristiche, nelle varie aree della West Bank – e a Gaza, ovviamente. E quindi, richiede risposte diverse. Imponendo priorità diverse. E già questo, divide. Ma c’è un altro dato, poi. Nell’Area B, in cui Israele ha il controllo della sicurezza, e ancora di più, nell’Area C, in cui ha giurisdizione esclusiva, due aree che insieme, sono l’82% della West Bank, non avere polizia significa non solo essere esposti all’IDF: ma anche al logoramento del tessuto sociale. Che si tratti di un incidente d’auto, di un debito non saldato, di spaccio di droga sotto casa, non c’è giustizia. Passate una notte all’ospedale di Jenin: i feriti delle faide sono più di quelli dei raid israeliani.
L’Occupazione è molto più che l’IDF, l’esercito israeliano onnipresente. Anzi. Delle sue varie forme, quella militare è la più visibile: e però, la meno decisiva. O meglio: è quella che i palestinesi sono più attrezzati a fronteggiare. Le restrizioni alla libertà di movimento sono un inferno soprattutto a Hebron, che in centro ha 29 degli 80 checkpoint fissi della West Bank, e nelle aree rurali, che sono nel mirino dei coloni: ma in generale, l’arma vera è l’economia. Che dipende strutturalmente da Israele: perché è Israele a riscuotere le tasse per l’Autorità Palestinese. E le tasse sono il 66% delle sue entrate. Israele gira tutto all’Autorità Palestinese al 31 del mese. Ma spesso, come adesso, sospende i bonifici: per rappresaglia. O sospende i permessi di lavoro dei palestinesi che lavorano sul suo territorio. Da cui arriva il 25% del PIL. Sostanzialmente, l’economia è in ostaggio. Costantemente, e intenzionalmente, in bilico: perché i palestinesi siano impegnati h24 a sopravvivere. E non abbiano tempo e energie per altro.
Questo, però, non è che lo sfondo. Gli attivisti sono unanimi: quello che più ha stravolto tutto, è stato Oslo, trent’anni fa. Perché con gli Accordi di Oslo del 1993, che non sono un accordo di pace, ma avviano un processo di pace, i palestinesi non hanno più avuto tutti lo stesso obiettivo: si sono divisi tra quelli pronti a uno Stato lungo i confini del 1967, e quelli fermi ai confini del 1948. E in più, gli è stato chiesto di costruire lo Stato; sviluppare le istituzioni; organizzare un’amministrazione.. Allo stesso tempo però, tra il Protocollo di Parigi del 1994 (che disciplina l’economia, subordinandola all’economia israeliana), e i coloni (aumentati da 115mila a 175mila giànel 1999, anno in cui si sarebbe chiuso il periodo transitorio e si sarebbe avuto lo Stato di Palestina) Oslo andava in direzione contraria: minava quello Stato che chiedeva di costruire.
E alle norme, si è sommata la prassi: si è sommata l’Autorità Palestinese. Progettata male, e gestita peggio. Già il primo anno, si è persa traccia del 40% del suo bilancio. E ora, è rimasto un regime autoritario a presidio degli affari del circolo di Mahmoud Abbas: che nomina tutti i suoi più alti funzionari, giudici inclusi. La legge palestinese sul cyber-crime vieta la diffusione di informazioni che rischiano di danneggiare “la sicurezza dello stato”, senza altre specificazioni: anche solo con un tweet, con un like su Facebook. Con pene maggiori che per furto e stupro. Qui non c’è più il minimo spazio non solo di organizzazione e mobilitazione: ma di espressione.
Il modello è Ramallah. Che in effetti, oggi sembra una città europea. Tutta caffè e zone commerciali. Ma è un’illusione: perché quella ricchezza è stata creata in larga parte a debito. Attraverso mutui e prestiti facili. E carte di credito a chiunque. Per questo Ramallah non va mai in piazza: perché è strangolata dalle rate. Come dicono gli attivisti: a Jenin hai contro l’esercito, a Ramallah le banche.
E le ONG hanno agevolato questi processi. Sono arrivate per potenziare la società civile, con milioni e milioni di dollari: e hanno finito per eliminarla. Relegandola a semplice manodopera di progetti definiti altrove. Anno dopo anno, i palestinesi sono stati rimpiazzati dagli operatori internazionali trentenni dei master in Cooperazione, che con competenze spesso vaghe hanno dettato esigenze e priorità senza mai neppure interrogarsi sul proprio ruolo in un contesto come questo: sui fini, i vincoli, le contraddizioni di operare sotto occupazione. E sostituendo la tecnica alla politica. Qui, le ONG costruiscono quello che l’Autorità Palestinese non costruisce: e ricostruiscono quello che Israele demolisce. Nient’altro.
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Nei report, leggi di skill-development, vocational practice, training per il talent enhancement: Poi trovi laureati pagati per riempire barattoli di cetrioli sottolio. Con le ONG, l’unica cosa che impari è a dipendere dagli aiuti.
E così, qui non è rimasto che Mahmoud Abbas. La comunità internazionale è con Mahmoud Abbas perché non c’è alternativa. Ma non c’è alternativa perché c’è Mahmoud Abbas.
Come venirne fuori? L’Unione Europea è la maggiore finanziatrice dell’Autorità Palestinese, a cui è legata da un Accordo di Associazione già dal 1997. Nell’ultimo triennio, il triennio 2021-2024, la European Joint Strategy for Palestine ha versato nelle sue casse 1,36 miliardi di euro. E dal 7 Ottobre, paga anche i suoi stipendi. Anche se in realtà, dal 7 Ottobre qui si vive di Western Union. Di rimesse della diaspora.
E la verità è che è tutto in vendita. Anzi, in svendita. Case, auto. Aziende. Tutto. Stanno tutti cercando di andare via. Non se l’è inventato Trump.
*Gli attivisti ascoltati:
Issa Amro (1980) di Youth against the Settlements – Hebron.
Badee Dweik (1973) di Human Rights Defenders – Hebron.
Yousef Awad (1964) del Jenin Cultural Center – Jenin.
Omar Mansour (1961) di Medical Relief – Jenin.
Manal Tamimi (1973) dei Popular Committees – Nabi Saleh.
Wael Faqeh (1966) di Tanweer – Nablus.
Hakema Hassan (1968) del Women Support Center – Nablus Hills.
Ossama Mustafa (1978) dello Yaffa Center – Balata Refugee Camp.
Jamal Juma (1962) di Stop the Wall – Ramallah.