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La politica nelle parole di Trump

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Indagare dalle parole pronunciate in un discorso ufficiale le intenzioni programmatiche di un uomo politico non è mai la migliore delle idee. Intanto perché si cade nella facile tentazione di pensare che il processo decisionale dipenda da una persona sola: sappiamo bene che non è così, tanto meno nel caso di un Paese-continente come gli Stati Uniti. Contrappesi, contesto, contingenze possono influenzare fino a bloccare il potere esecutivo di qualsiasi inquilino della Casa Bianca. E poi perché questo tipo di comunicazione ha le sue particolarità e i suoi propri codici, ai quali persino Donald Trump deve adeguarsi. Ciononostante, la narrativa del presidente rieletto nel suo discorso di insediamento del 20 gennaio 2025 può rivelare molto sia della volontà, sia del quadro mentale, sia del senso che sarà attribuito alle scelte della nuova amministrazione.

Donald Trump al momento del giuramento da presidente con la moglie Melania.

 

Per cominciare, una nota non verbale ma molto significativa: la presenza evidente alla cerimonia dei magnati del tecno-capitalismo americano Mark Zuckerberg (Meta), Jeff Bezos (Amazon), Sundar Pichai (Google), e ovviamente Elon Musk (X, SpaceX, Tesla). E’ una dimostrazione di forza di chi promette di rendere il Paese “più grande, più forte, molto più eccezionale” che prima: “da oggi, il declino dell’America è finito”, specifica. Nessuno di questi “trimiliardari” era all’insediamento di Joe Biden, quattro anni fa – quando l’ospite più illustre fu Lady Gaga. Né quattro anni fa ci furono esponenti politici stranieri: stavolta, invece, risaltava la presenza, anche questa eloquente, di Giorgia Meloni per l’Europa, e del presidente argentino Javier Milei per l’America Latina.

Si ha un bel dire che gli Stati Uniti siano in buona salute economica o politica: da tempo l’immagine retorica prevalente nei discorsi dei nuovi presidenti è quella di un Paese che deve risollevarsi da una crisi non grave, ma capitale. Lo disse Obama nel 2009, Trump nel 2017, Biden nel 2021, e di nuovo Trump stavolta. Da questo punto di vista, la novità è il tono millenarista-religioso usato da Donald Trump, che assume nella sua persona – e non solo negli “americani”, come in genere si era fatto in passato – la capacità di assicurare “il ritorno dell’età dell’oro”: la prima frase del discorso.

 

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“Il proiettile di un assassino mi ha strappato l’orecchio – ha ricordato riferendosi all’attentato subito a Butler, Pennsylvania il 13 luglio durante un comizio – ma Dio mi ha tenuto in vita per riportare l’America alla sua grandezza”. Trump ha spesso espresso in passato questo concetto, ma l’ufficialità di un discorso che come tutti quelli di insediamento sarà ricordato nella storia ci porta a constatare che il nuovo presidente riconosce il divino come fonte di legittimazione “rafforzata” del proprio potere. Non è certo la prima volta che Dio entra nella politica americana, ma finora i presidenti l’avevano tirato in ballo per chiederne la protezione, o per giurare di seguirne le regole. Lo stesso George Washington, nel suo discorso di insediamento nel 1789 davanti al Congresso, parlò di una repubblica che “per meritare il sorriso benevolo del Cielo” avrebbe dovuto seguire “le regole eterne dell’ordine e della legge”. Non il contrario. D’altronde, Washington e gli altri padri fondatori degli Stati Uniti avevano fatto la Rivoluzione proprio per mettere nero su bianco che nessuno, tantomeno il Re d’Inghilterra, poteva governare l’America per volere di Dio.

Invece la Costituzione – che spesso è il cuore dei discorsi di inaugurazione – è stata quasi ignorata da Trump, così come il Congresso (questo, ignorato del tutto). Il presidente ha immediatamente firmato circa duecento ordini esecutivi, cioè dei decreti, benché abbia appunto la maggioranza sia alla Camera che al Senato, proprio per mostrare il poco valore che attribuisce agli organi legislativi dello stato. Tra di essi, l’uscita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dagli Accordi di Parigi sulla lotta al riscaldamento globale.

Il Presidente, come altro pilastro della sua legittimazione, ha sottolineato l’ampiezza della sua vittoria elettorale, con un’America “che si unisce sul mio programma”: “abbiamo vinto tutti gli swing States”, “abbiamo guadagnato consensi in tutte le categorie”, “abbiamo vinto il voto popolare di milioni di voti”. Un’insistenza abbastanza curiosa, non fosse per il fatto che invita ad andare a controllare com’è andata davvero nelle urne: il 5 novembre Trump si è imposto con il 49,8% e 77 milioni di voti, contro il 48,3% di Kamala Harris e 75 milioni di voti. La vittoria c’è; ma i numeri dicono che l’America non è unita sul programma trumpiano.

Come accade con gli showmen quale Trump è conscio di essere, il pubblico spera sempre che l’uomo sul palcoscenico si produca in una certa performance, “faccia” il pezzo preferito. Dal punto di vista internazionale, quello di chi come noi osserva la Casa Bianca da lontano, stavolta non ci sono stati riferimenti all’acquisto o all’invasione della Groenlandia o all’annessione del Canada. Il focus si è spostato verso Sud: il nuovo presidente ha ripetuto l’intenzione di cambiare nome al Golfo del Messico in “Golfo d’America”, e ha di nuovo detto che il controllo del Canale di Panama dovrà tornare a Washington (ora è appunto di Panama, accusata di favoritismi verso Pechino). L’infrastruttura, lo ricordiamo, è cruciale nelle rotte commerciali tra il Nord America e la Cina e l’Asia Orientale. Ma come in un asterisco, incrociano Panama anche le rotte migratorie tra l’America Meridionale e quella Centrale e Settentrionale.

Anche individuare una specifica urgenza nazionale è stato tipico degli ultimi discorsi di insediamento. Per Obama fu come far funzionare il mercato e lo stato in maniera più giusta per tutti (si era poco dopo lo scoppio della crisi del 2008), per Trump I fu “restituire il potere al popolo” (dopo una campagna elettorale anti-establishment), per Biden fu la difesa della democrazia (si era poco dopo l’assalto dei supporter trumpiani a Capitol Hill). Ma in questa occasione, Trump ha trasformato l’urgenza in “emergenza”: e la prima emergenza è l’immigrazione clandestina, contro la quale verranno utilizzati tutti i mezzi a disposizione, compreso l’abolizione del diritto alla cittadinanza americana per i bambini che nascono da persone che si trovano negli USA irregolarmente, garantito da un secolo e mezzo. “Milioni di stranieri criminali saranno rimpatriati”, promette.

Trump ne aveva parlato spesso. Meno aveva parlato della seconda “emergenza nazionale” che sarà dichiarata: quella energetica. Da quasi dieci anni gli Stati Uniti hanno raggiunto l’indipendenza energetica, ossia vendono all’estero molta più energia (gas e petrolio) di quanta ne comprino. Ma con l’espressione Drill, baby, drill (“trivella, baby, trivella”) il nuovo presidente promuove un ulteriore aumento della produzione nazionale di idrocarburi, con l’obiettivo, dice, di abbassare i prezzi. Prezzi che al momento sono determinati dall’intesa sostanziale tra Arabia Saudita e Russia.

Al contrario di molti altri predecessori, compreso l’ultimo repubblicano, George W. Bush che nel 2001 si era mantenuto su temi di principio come la responsabilità individuale e la partecipazione civica, da stimolare durante il suo mandato (sarebbe poi stato ricordato per aver lanciato le disastrose guerre di Afghanistan e Iraq), Trump è sceso molto nel dettaglio delle sue intenzioni. In particolare, ha garantito che l’America ricostruirà la sua potenza industriale – oggi ai minimi storici, ormai doppiata dalla Cina – partendo dalla produzione di automobili, vecchia gloria nazionale ormai sbiadita.

 

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Per fare questo, gli Stati Uniti “si disimpegneranno dalle aree di conflitto nel globo”, per concentrarsi appunto sulle proprie esigenze locali. Qui arriva un doppio riferimento a Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo e alleato inossidabile di Trump in questo momento storico – alleato sì, ma altrettanto capace di costruire egemonia attraverso i suoi canali comunicativi. Musk “porterà l’America su Marte”. E Musk sarà il titolare del nuovo “ministero dell’Efficienza” che si occuperà di tagliare la spesa pubblica, con l’obiettivo ideale di diminuirla del 75% – nessuno può sapere, però, come si concretizzerà questa intenzione. Abolire l’intervento e la regolazione pubblica il più possibile per sostituirla con il privato, comunque, resta prioritario.

Il principio di indebolire le attribuzioni del governo federale in favore degli Stati, per esempio sostenuto dalla Corte Suprema nella sentenza sul diritto all’aborto del 2021, ma da considerare anche nell’ambito economico o regolativo, era stato già esplicitato da Ronald Reagan nel suo discorso del 1981. Anche in quel caso si dettagliavano molto i provvedimenti da prendere, e la dimensione di cambiamento economico e culturale era sottolineata con forza.

Trump dedica la sua conclusione all’America mitica ed eccezionale “che ha superato tutte le sfide che ha incontrato”, “che ha formato i più straordinari cittadini della Terra”, “che tornerà a vincere come mai prima”, “che fermerà tutte le guerre” – a proposito, non c’è più notizia dell’impegno di chiudere la guerra in Ucraina “nel primo giorno del mio mandato”, preso in campagna elettorale. Ma c’è la rivendicazione del cessate il fuoco tra Hamas e Israele infine concesso dal premier Netanyahu tre giorni prima del discorso.

Ma prima, il nuovo presidente si dedica tra l’altro a dare la linea delle guerre culturali che, quelle sì, vuole combattere. “La nostra società sarà basata esclusivamente sul merito”, dice riferendosi all’impegno di eliminare tutte le regole in difesa di minoranze e categorie protette. “La libertà di espressione trionferà e non ci sarà più censura”, dice riferendosi alla pratica da imporre non solo sulle reti sociali, ma anche nei media tradizionali, di eliminare il fact-checking, il controllo fattuale, prima della pubblicazione di dichiarazioni pubbliche. E basta parlare di razza e genere: “ci sono solo maschi e femmine”.

“Da oggi, gli Stati Uniti d’America saranno un Paese libero e indipendente”, chiude Trump. “Che la benedizione divina possa guidarci nelle visioni approfondite, nelle discussioni temperate, e nelle misure sagge da cui il successo di questo governo dipenderà”: no, questa conclusione fu soltanto quella di George Washington.