La Turchia tra Israele e Iran nello scenario mediorientale
La Turchia condanna con fermezza le recenti azioni di Israele su vaste zone del Libano, ma si guarda bene dal fare lo stesso con i missili lanciati da Hezbollah che hanno colpito Tel Aviv e altre località dello Stato ebraico nella notte fra l’1 e il 2 ottobre. E, viste le posizioni antisioniste e filo-palestinesi del presidente di Ankara, Recep Tayyip Erdogan, questa potrebbe anche non essere una sorpresa. Non tutte le organizzazioni armate e terroriste che operano in nome del popolo palestinese, però, sono uguali agli occhi del Sultano.
Quindi, se l’indebolimento di Hamas è un grave danno per la Turchia, quello di Hezbollah potrebbe venire a rappresentare un vantaggio e ciò spiegherebbe la prudenza di Ankara in questa fase. Le gravi perdite subite dalla milizia libanese non sono state oggetto di commento da parte del presidente Erdogan, che ha lasciato al ministro degli Esteri, il fidato Hakan Fidan, il compito di esprimere la posizione della Turchia.
Il discorso è ancora più amplificato se si parla della crisi attraversata dall’Iran. Erdogan con la Repubblica Islamica ha sempre tenuto un doppio binario. Il presidente turco è un sunnita convinto, legato a doppio filo ai Fratelli Musulmani. Nonostante questo, non si è mai voluto inimicare Teheran sostanzialmente per due motivi.
Il primo è dettato da necessità commerciali ed energetiche. L’Iran ha sempre rappresentato un partner importante per la Turchia. Così importante che, nel 2019, Halkbank, la seconda banca pubblica turca, è stata incriminata dal Dipartimento di Giustizia americano con l’accusa di frode e riciclaggio di denaro per aver violato le sanzioni Usa emesse contro la Repubblica Islamica nel 2017. Secondo la Procura generale di New York, alti dirigenti del governo turco, direttamente legati al presidente Erdogan, hanno ‘partecipato e protetto’ un meccanismo che prevedeva il trasferimento illegale di soldi e oro in cambio di gas, oltre a tangenti per decine di milioni di euro. L’import energetico è uno dei problemi più sentiti nel bilancio della Turchia, con 50 miliardi di metri cubi importati nel 2023. Erdogan lavora da anni per trasformare il Paese in un hub energetico. Viene dunque facile capire perché la Turchia abbia compiuto un azzardo simile.
Il secondo motivo di sintonia con l’Iran è proprio il fronte comune contro Israele. La politica di Ankara, negli anni ’90 partner strategico e fedele dello Stato ebraico, su questo capitolo ha iniziato a mutare dal 2006, quando Erdogan aveva preso il potere da pochi anni, e si è modificata nel tempo, trasformando la Turchia da alleato a nemico di Tel Aviv.
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Adesso che l’Iran e il suo proxy libanese Hezbollah sono evidentemente indeboliti, Erdogan, che si conferma il leader più pragmatico, ai limiti del corsaro, del Medio Oriente, può approfittarne e guadagnare terreno in due partite che gli stanno particolarmente a cuore e che, se gestite bene, potrebbero aumentare l’influenza di Ankara sullo scacchiere internazionale.
La prima è la Siria: senza alcun dubbio il teatro più importante per Erdogan. Il triangolo Russia-Iran-Turchia sta ridisegnando gli assetti futuri del Paese dopo anni di guerra civile, uno scenario dove Ankara partiva da una posizione di svantaggio rispetto a Mosca e Teheran. Da un lato, c’era l’oggettivo peso internazionale maggiore degli altri due alleati, e poi il fatto che Putin e Khamenei sull’argomento Siria hanno una comunanza di vedute pressoché totale, a iniziare dalla permanenza al potere di Bashar Al-Assad, contro il quale invece Erdogan si è scagliato più volte nel corso degli anni a causa della guerra civile in atto nel suo Paese, ufficialmente chiedendogli di dimettersi e smetterla di reprimere la popolazione civile, ufficiosamente perché le repressioni riguardavano anche alcuni gruppi Jihadisti vicini al presidente turco.
Fino a qualche settimana fa, il numero uno di Ankara sembrava rassegnato al diktat russo-iraniano e aveva anche aperto a un incontro con Assad in Turchia, alla presenza di Vladimir Putin. Il presidente turco, però aveva anche un problema diretto con Hezbollah, presente anche in Siria e spesso in contrasto con i gruppi religiosi sostenuti da Ankara. Il suo indebolimento, dunque, per Erdogan è una buona notizia, a differenza di quello di Hamas, perché permette alla Turchia di contare di più in un Paese chiave in Medioriente: in Siria, non dimentichiamolo, ha una presenza importante nella zona nord-occidentale, composta non solo da truppe, ma anche da civili, aziende e scuole, ufficialmente in posizione anti-curda, ma che di fatto costituisce una enclave turca in Siria.
Il secondo motivo che spinge il presidente Erdogan a osservare l’evolversi della situazione è il Caucaso. Qui, al contrario della Siria, l’Iran rappresenta un elemento di disturbo rispetto alle posizioni di Russia, Turchia, e soprattutto Azerbaigian. Iran e Azerbaigian condividono la fede nell’Islam sciita, per quanto la repubblica caucasica sia molto secolarizzata, a differenza di Teheran. Per il resto, sono divisi da dispute ataviche territoriali e sullo sfruttamento di alcuni giacimenti del Caspio. L’Azerbaigian è un grande alleato di Ankara e in ottimi rapporti con Mosca. Turchia, Russia e Azerbaigian hanno una visione comune sulla regione, che consiste soprattutto nel collegamento fra l’Azerbaigian e la repubblica autonoma di Nakhchivan, di fatto una exclave di Baku attraverso il corridoio di Zangezur, che correrebbe proprio in parallelo con il confine iraniano. Una linea commerciale destinata a collegare Asia, Europa e Medio Oriente, escludendo i posti di blocco armeni, ma che piace poco a Teheran.
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La Repubblica Islamica, ufficialmente, vede nel corridoio un pericolo per la sicurezza dei suoi confini. Ufficiosamente, vuole impedire all’ingombrante vicino, che è anche in ottimi rapporti con Israele, di conquistare un vantaggio che potrebbe aumentare l’isolamento dell’Iran nella regione. Prima dell’attentato a Ismail Haniyeh, il capo di Hamas, ucciso lo scorso luglio mentre di trovava proprio a Teheran per l’insediamento del nuovo presidente Masoud Pezeshkian, il governo iraniano aveva fatto pressione su Mosca, ricordando tutto l’aiuto fornito a livello militare in quasi tre anni di guerra in Ucraina.
Gli attacchi di Israele negli ultimi mesi, però, hanno cambiato tutto. L’Iran è in una fase di crisi e la stessa Russia è impegnata nel conflitto con Kiev, che drena energie e risorse. La Turchia sta cercando di approfittarne.