Vittoria e sconfitta: la Storia e la guerra russo-ucraina
In ogni conflitto bellico, il concetto di vittoria (come quello di sconfitta) è sostanzialmente politico, prima e oltre che militare. Tranne nelle rare circostanze di una vera resa incondizionata, ciò è sempre vero. Basti ricordare un caso storicamente molto studiato e spesso citato in cui un leader politico in condizioni di netta inferiorità militare e di relativo isolamento diplomatico riuscì a estrarre una (possibile) vittoria dalle fauci di una (quasi certa) capitolazione: si tratta naturalmente di Winston Churchill.
Era il 4 giugno 1940 quando l’allora Primo Ministro britannico pronunciò il suo discorso più celebre, che conteneva questo passaggio centrale:
“Even though large tracts of Europe and many old and famous States have fallen or may fall into the grip of the Gestapo and all the odious apparatus of Nazi rule, we shall not flag or fail. We shall go on to the end. We shall fight in France, we shall fight on the seas and oceans, we shall fight with growing confidence and growing strength in the air, we shall defend our island, whatever the cost may be. We shall fight on the beaches, we shall fight on the landing grounds, we shall fight in the fields and in the streets, we shall fight in the hills; we shall never surrender.”
Non certo a caso, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha citato quasi letteralmente quel discorso nel suo intervento (in collegamento video) del marzo 2022 proprio alla Camera dei Comuni, nel chiedere l’aiuto della Gran Bretagna e dei suoi alleati. L’analogia tra la situazione britannica del 1940 e quella ucraina del 2022-24 non finisce qui, visto che al richiamo patriottico e ideale Churchill aggiunse una specifica considerazione pratica di Realpolitik sull’unico fattore esterno che allora avrebbe potuto fare la differenza nello scontro con la Germania nazista, cioè gli Stati Uniti:
And even if, which I do not for a moment believe, this island or a large part of it were subjugated and starving, then our Empire beyond the seas, armed and guarded by the British Fleet, would carry on the struggle, until, in God’s good time, the New World, with all its power and might, steps forth to the rescue and the liberation of the Old.”
Come si vede, la Storia non si ripete mai esattamente, ma spesso riecheggia. In quel caso, la speranza quasi disperata del Premier britannico si rivelò alla fine una predizione corretta. Gli USA salvarono le isole britanniche, e così il Nuovo Mondo salvò il Vecchio (in parte da se stesso).
La memoria storica dovrebbe oggi insegnarci quantomeno che gli alleati – cioè qualsiasi Paese che si schieri in modo tangibile a sostegno di un altro, anche senza alcun accordo formale che preceda l’inizio delle ostilità – possono cambiare il corso degli eventi. La precondizione è però che vi sia una volontà ferrea di resistere da parte di chi è stato attaccato, ed è questo ingrediente decisivo che Churchill riuscì a mobilitare.
Un altro aspetto della guerra in atto da due anni tra Russia e Ucraina, spesso sottovalutato, riguarda quella che potremmo definire la specifica “via occidentale alla guerra”, ovvero il modo in cui la cultura democratico-liberale concepisce l’uso della forza: in tale visione, il ricorso agli strumenti militari viene sempre ammantato di una rilevanza giuridica. Che ci siano molte ipocrisie e “doppi standard” nell’applicazione del principio è qui secondario, nel senso che rimane comunque la testarda volontà di dare una veste (anche) legale alle proprie scelte più tragiche e cariche di conseguenze.
In fondo, l’attributo del monopolio della forza legittima è distintivo dello Stato sovrano, come inteso appunto da una lunga e complessa dottrina politica che coincide di fatto con la modernità, ed è un pilastro fondante del diritto internazionale. I regimi democratico-liberali credono profondamente in questa particolare combinazione (forza, legittimità, diritto): i loro leader la invocano sistematicamente e le loro opinioni pubbliche pretendono che i leader la spieghino, la raccontino, la dimostrino per giustificare l’uso dello strumento militare, perfino in modalità indiretta nel sostenere un altro Paese nel suo sforzo bellico. E’ per questo che una ragione centrale dell’appoggio all’Ucraina dal febbraio 2022 sta proprio nell’idea che lo Stato ucraino abbia il diritto di esistere come entità sovrana e indipendente. In altre parole, non si sta soltanto difendendo uno Stato, un regime politico, una popolazione che non vuole essere soggiogata da un’altra; si sta difendendo un principio delle relazioni internazionali e della vita politica.
Ecco perché concedere una “vittoria” a Putin e/o costringere Zelensky a una “sconfitta” dipende in larga misura dalla nostra interpretazione dei fatti, prima ancora che da dati oggettivi lungo il fronte.
Alcuni osservatori hanno obiettato che nelle condizioni attuali l’Ucraina non ha comunque le capacità per riprendere il controllo di tutti i territori che le sono stati sottratti dalla Federazione Russa con le invasioni del 2014 e del 2022. Ciò è probabilmente vero, ma non ne deriva – come invece viene sostenuto da molti – che Kyiv debba dunque rassegnarsi a trasformare la linea del fronte in un confine definitivo. Entra nuovamente in campo l’importanza della dimensione giuridica, che ha poi una valenza profondamente politica e strategica: il punto cruciale non sarà l’esatta collocazione geografica della frontiera su cui saranno schierati i rispettivi eserciti, bensì il modo in cui quella frontiera sarà descritta. Se si tratterà di una linea temporanea di un cessate-il-fuoco o perfino di un vero armistizio, non riconosciuta formalmente come confine di Stato, ogni sviluppo futuro rimarrà aperto.
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Quello del diritto internazionale non è affatto un mondo perfetto di idee platoniche, eppure è un aspetto rilevante degli assetti globali. A volte, un alto tasso di “ambiguità costruttiva” offre soluzioni creative e perfino funzionali e relativamente stabili: si pensi al caso di Taiwan, un’isola contesa che ha potuto diventare una prospera democrazia grazie alla protezione americana senza l’attributo formale della sovranità, o a quello della Corea del Sud che tuttora non ha firmato un accordo di pace con la Corea del Nord dopo la guerra del 1950-53, o ai tre Stati baltici la cui annessione all’URSS non fu mai ufficialmente riconosciuta dai Paesi occidentali. Nessuna di queste anomalie ha impedito che si coltivassero rapporti, per quanto problematici, tra avversari o tra blocchi contrapposti. L’importanza dei principi generali e astratti può convivere con un grado di ambiguità.
Spetta oggi agli ucraini, alla leadership politica e ai cittadini, determinare quali sia un esito accettabile della guerra. Ma spetta a chi li ha finora appoggiati definire quanto sia importante questo conflitto per il futuro dell’Europa e delle relazioni internazionali. E’ chiaro che inviare armi, munizioni e denaro a una parte in causa significa prolungare il conflitto; del resto, è chi si difende che impedisce la pace, se per pace si intende la vittoria dell’aggressore.
Vittoria e sconfitta sono, come sempre, anzitutto una questione di volontà.