international analysis and commentary

L’Italia nel “connettore geopolitico” mediterraneo

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Benché sul piano della sicurezza militare gli ultimi mesi abbiano visto l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale concentrata su scenari come l’Ucraina e l’estremo Oriente, proprio a causa dei mutamenti in corso i tali scacchieri, il Mediterraneo e i processi politici, economici e sociali che lo caratterizzano meritano di essere esaminati in maniera più accurata.

Data la caratteristica di connettore che storicamente lo connota, il bacino del Mediterraneo tende ad assumere nelle dinamiche internazionali un ruolo cangiante, in espansione o in contrazione, appunto, conseguentemente a quanto accade nelle macro-aree che lo circondano. In particolare, al suo interno, assumendo forme e geometrie complesse, si intrecciano fenomeni che, singolarmente intesi, originano altrove. Tra questi, quello più dibattuto e spinoso, almeno per una certa parte della classe politica nazionale, la quale vi ha legato la specificità del cosiddetto mare nostrum, è quello delle migrazioni.

 

Le migrazioni, da anni, rappresentano un tema caldo nell’agenda politica di qualunque esecutivo. Tornata alla ribalta con riferimento al tema del ricollocamento volontario tra Paesi membri dell’UE, a inizio novembre la questione concernente i flussi migratori provenienti dall’Africa aveva dato vita a una frizione tra Roma e Parigi. Da un lato, la scelta del nuovo governo italiano di chiudere i porti a certe ONG poteva risultare una mossa funzionale affinché Roma e Parigi iniziassero a misurarsi a vicenda dopo il ritorno di un esecutivo politico alla guida del Paese – dopo che, sotto la guida di un governo “tecnico” come quello di Mario Draghi, era stato siglato con la Francia un accordo di grande importanza simbolica come il Trattato del Quirinale. Dall’altra, l’eco mediatica legata alla breve crisi diplomatica ha portato l’attenzione collettiva su un tema di lungo corso che, durante l’inverno, a causa delle condizioni atmosferiche, malauguratamente assume tratti ancora più drammatici: un effetto che, al di là del metodo, nel merito non può dirsi negativo.

In termini pragmatici di strategia politica, tuttavia, appare sensato che i decisori nazionali si focalizzino solo o in prevalenza su uno specifico aspetto della grande vicenda migratoria, cioè sui flussi clandestini e la necessità di bloccarli? Sarà attraverso la securitizzazione del fenomeno migratorio che l’Italia riuscirà a vedere riconosciuto il proprio interesse nazionale in quello spazio geopolitico?

Quello delle migrazioni è un fenomeno che connota la storia dell’umanità sin dagli albori. In un’ottica particolaristica, forse, esso rappresenta la causa di talune problematiche interne allo Stato italiano odierno o, in una prospettiva regionale, tra l’Italia e altri Paesi europei. In termini generali, però, il fenomeno migratorio nel Mediterraneo costituisce uno degli effetti del riassestamento cui la struttura internazionale sta andando incontro dopo la fine del cosiddetto “secolo globale”. Trattandosi di un fenomeno che origina da cause internazionali, come la competizione per la redistribuzione del potere tra potenze, che si manifesta nel Mediterraneo non perché endogeno alla regione, ma a causa della sua natura di connettore geopolitico, non sarebbe dunque più sensato applicare a quell’area e alle questioni che la connotano (tra cui anche, non solo, quella migratoria) un approccio di tipo propriamente internazionale?

Trattare una problematica che origina da cause internazionali secondo logiche e metodi regolati in prevalenza da obiettivi di politiche interna, è una forma di riduzionismo che, forse, paga sul piano dei sondaggi quale rappresentazione di una presunta assertività regionale. In termini sostantivi, però, gli esiti di una strategia del genere appaiono vieppiù elusivi. In un contesto nel quale a livello di struttura internazionale si stanno verificando importanti ‘movimenti tettonici’, approcciare uno scacchiere permeabile come quello Mediterraneo in base a metodi appunto riduttivi sembra poco efficace. Si è visto emergere questo problema nel cosiddetto governo ‘giallo-verde’ guidato da Giuseppe Conte nel 2018-19, durante il quale il momento identitario e della valorizzazione dell’interesse nazionale raramente si è saldato a una lettura obiettiva del contesto internazionale, appare una scelta come minimo subottimale. Sarebbe più efficace, di contro, sfruttare le onde lunghe prodotte da quei mutamenti internazionali per armonizzare l’interesse dell’Italia con le geometrie euroatlantiche.

Sino alla fine del XX secolo, infatti, europeismo e atlantismo erano trattati come concetti distinti quando non caratterizzati da una dialettica, benché talora costruttiva. Il XXI secolo ha segnato una svolta in chiave di ibridazione contaminazione tra gli stessi, ma è con lo scoppio della guerra in Ucraina e l’adesione della Commissione Europea a un concetto di sicurezza più militante che la distanza tra le due sponde dell’Atlantico si è assottigliata a tal punto da determinare tra europeismo e atlantismo una vera e propria fusione di obiettivi se non di metodi. Raramente, va detto, questa sintesi appare utilizzata con un adeguato livello di consapevolezza, anche di eventuali contraddizioni interne, da parte dei decisori politici – un conetto tanto autoevidente, insomma, quanto poco approfondito.

Qualora l’esecutivo italiano intendesse di contro sostanziare il concetto di euroatlantismo di contenuti coerenti una lettura dell’interesse nazionale dell’Italia in cui il ruolo del Mediterraneo fosse reinterpretato alla luce dei riallineamenti che si stanno verificando a Oriente, l’approfondimento e l’ampliamento rispetto alle politiche sinora praticate dall’Italia risulterebbero a tal punto evidenti che: i) le dispute “locali” con la Francia passerebbero in secondo piano in ragione di obiettivi (di UE e NATO a quel punto) di ordine superiore;  e ii) la gestione dei flussi migratori diventerebbe non più un tema a sé stante, ma uno degli aspetti gestionali integrati in un concetto strategico nazionale capace di riconsiderare il ruolo funzionale del fianco meridionale della NATO in un diversa prospettiva, appunto, di  ibridazione e contaminazione con quello di sicurezza europea.

Va da sé che questa storia sia da scrivere, eventualmente, e molto dipenderà dagli esiti dello scontro in Ucraina. Tuttavia, l’aggressione russa ha permesso all’Occidente di accorciare le distanze su alcuni temi esistenziali tra i suoi attori chiave, tra cui l’Italia, come non accadeva da tempo. Per quanto concerne il Mediterraneo, poi, passare da una condotta introiettata, basata su asserzioni negative come la chiusura dei porti o la narrativa (perché il concetto strategico è altra cosa) del blocco navale, a una di tipo proattivo, nella quale attraverso una definizione in termine di politiche di cosa sia per l’Italia l’euroatlantismo, rappresenterebbe una vera e propria rivoluzione.

Dalla chiusura dei porti all’elaborazione di una politica navale nazionale compatibile con le future istanze di NATO e UE il passo è affatto breve, anche in termini creativi. Tuttavia, potrebbe valere la pena correre il rischio. La metrica, però, dovrebbe a sua volta mutare. In questo caso, come affermava Henry Kissinger – e Charles De Gualle, nonostante una lettura differente della geopolitica, avrebbe probabilmente sottoscritto – la bontà della scelta andrebbe tuttavia valutata non in funzione della sua realizzazione (non ultimo perché aleatoria), ma della sua ‘altezza’ in quanto obiettivo politico.