international analysis and commentary

L’errore strategico di dimenticare il Maghreb

4,395

La parola araba maghrib, tradotta in senso letterale, indica il luogo dove tramonta il sole, oltre a designare la preghiera islamica della sera, e il Regno del Marocco. Da questo termine deriva anche la denominazione geografica e culturale che raggruppa i tre Paesi dell’Africa nord-occidentale – Tunisia, Algeria e Marocco – stretti tra le coste mediterranea e atlantica e le profondità infuocate del Sahara. Alcuni preferiscono allargare il Maghreb alla Mauritania e alla Libia, rischiando però di scolorirne i caratteri peculiari, dalla vigorosa identità berbera al comune passato coloniale francese, dai rapporti stretti con l’Europa agli sforzi di modernizzazione e sviluppo.

I principali attori dello scacchiere internazionale e, in modo particolare, l’Unione Europea, gli Stati Uniti e la Cina, dedicano poca attenzione a quest’area. Essa è percepita come marginale dal punto di vista economico e militare, richiedendo solo azioni secondarie per impedire la formazione di vuoti geopolitici, che potrebbero essere colmati da rivali potenzialmente pericolosi per interessi e posizioni acquisiti nel tempo. Tale atteggiamento non permette di cogliere l’importanza strategica del Maghreb come testa di ponte verso il Sahel e l’Africa occidentale, fino al Golfo di Guinea.

L’area del mondo con al centro il Maghreb

 

L’indifferenza dell’Unione Europea

Per ragioni storiche e di vicinanza geografica, l’Unione Europea e alcuni dei suoi Stati membri, soprattutto la Francia, l’Italia e la Spagna, dispongono della forza sufficiente per influenzare le dinamiche dei Paesi maghrebini. I due terzi delle esportazioni tunisine e più della metà di quelle algerine e marocchine sono indirizzati verso l’Europa occidentale. Al contrario, per l’Unione Europea, il Maghreb è associato a una limitata integrazione economica regionale, che non permette di superare le ristrettezze dei mercati nazionali.

A questo si aggiungono le fragilità della transizione democratica tunisina, seguita alla “Rivoluzione dei gelsomini” del 2011, nonché le tensioni politiche tra Rabat e il suo vicino orientale. L’Algeria continua infatti ad ospitare, intorno all’oasi di Tindouf, migliaia di profughi sahrawi, provenienti dalla regione del Sahara Occidentale di cui rivendicano l’indipendenza. Algeri appoggia le loro richieste sul territorio a sud del Marocco, lungo la costa atlantica, occupata dai marocchini nel 1975, dopo la partenza delle truppe coloniali spagnole alla morte di Franco.

Tali difficoltà impediscono all’Unione del Maghreb arabo, istituita nel 1989 tra i tre Paesi con la partecipazione anche della Mauritania e della Libia, di incoraggiare la cooperazione politica e l’unità economica tra i membri. È dal 2008 che non si tengono vertici di alto livello, nonostante i tentativi del segretario generale, il tunisino Taieb Baccouche, di scuotere i governi locali dal loro torpore.

Tutta l’Europa ha guardato con speranza alle Primavere arabe di dieci anni fa, credendo possibile un futuro di democrazia e sviluppo da incoraggiare con politiche ad hoc. Tali aspettative, con l’eccezione parziale della Tunisia, si sono infrante contro i tentativi delle classi dirigenti di conservare la loro posizione, a scapito delle richieste popolari.

Questo è avvenuto tanto in Marocco, dove il re Muhammad VI ha sfruttato la rivendicazione della sua dinastia di discendere dal Profeta per puntellare l’istituzione monarchica e concedere solo alcune aperture sui diritti civili e politici, quanto in Algeria. Qui i cittadini conservano il ricordo del “decennio nero” che, alla fine del secolo scorso, insanguinò il Paese. La paura di una nuova guerra civile non ha impedito che, da circa due anni, sia attivo un movimento pacifico nato dal basso, conosciuto come hirak, nato per reazione all’annuncio della quinta candidatura presidenziale consecutiva di Abdelaziz Bouteflika, fermo nelle sue rivendicazioni in favore della democrazia e di istituzioni più efficienti.

L’Unione Europea si limita a destinare ai Paesi maghrebini una parte degli aiuti stanziati per il sostegno ai Paesi in sviluppo. Tra il 2017 e il 2020, la Tunisia ha beneficiato di circa 300 milioni di euro all’anno, impiegati nel rafforzamento dello Stato di diritto, nella crescita sostenibile e in progetti per favorire la coesione sociale. Gli aiuti all’Algeria e al Marocco sono molto meno consistenti, investiti in buona parte per incoraggiare la diversificazione dell’economia nazionale e la modernizzazione del sistema economico.

I tentativi di Bruxelles di approfondire il rapporti con questa parte del Nord Africa hanno incontrato molte resistenze. Le istituzioni comunitarie hanno fatto ricorso a strumenti tipici messi a disposizione dal diritto internazionale, come accordi di libero scambio oppure intese per facilitare l’ingresso dei cittadini degli Stati membri con l’intento di promuovere l’incremento dei flussi turistici. Le capitali maghrebine hanno reagito con diffidenza, sospettando politiche neocoloniali e temendo l’invasione di prodotti europei, capaci di sostituirsi a quelli locali per qualità e varietà, soprattutto nel comparto agricolo.

Immobilismo e sospetti reciproci non hanno impedito ad alcuni Stati europei, in particolare alla Francia, di sfruttare l’eredità dei decenni passati, mantenendo una considerevole influenza politica, economica e culturale sul Maghreb. Segue l’Italia, con forti interessi in Algeria, che nel 2020 ha fornito il 22% del gas consumato nel nostro Paese. Ciononostante, l’assenza di una politica organica di buon vicinato da parte dell’UE lascia all’iniziativa dei singoli Stati membri la gestione dei problemi, come quello dei flussi migratori che attraversano o partono dal Maghreb, senza riuscire a sfruttare le opportunità di un’area così vicina eppure percepita come molto distante.

Muhammad VI del Marocco con il presidente francese Emmanuel Macron

 

Per Washington il Nord Africa si limita all’Egitto

L’attenzione dedicata dagli Stati Uniti al Maghreb è ancora minore. Il sostanziale disinteresse per questa parte del mondo è una costante, che va al di là dell’alternanza dei presidenti e delle maggioranze al Congresso. Gli apparati burocratici del Dipartimento di Stato e del Pentagono sono più attenti a monitorare l’altro estremo dell’Africa mediterranea. L’Egitto è infatti considerato un pilastro della politica mediorientale di Washington, in ragione del suo peso demografico, del controllo sul Canale di Suez e dei cruciali rapporti con Israele, diplomaticamente avviati già dalla firma del trattato di pace del 1979.

Il Maghreb è sistematicamente trascurato, fatta eccezione per azioni sporadiche legate alla situazione contingente. Il Marocco e la Tunisia godono dello status di major non-NATO allies, conferito loro da George W. Bush e da Barack Obama. Nel caso di Rabat, si trattava di un riconoscimento per il sostegno alla lotta contro il terrorismo, mentre Tunisi è stata premiata per i suoi sforzi nella transizione democratica. Al di là del valore simbolico, la qualifica di questi due Paesi non comporta conseguenze pratiche di rilievo.

Diverso è il caso dell’Algeria, che non vanta una tradizione di rapporti cordiali con gli americani. Le ragioni di tali difficoltà risalgono già agli anni della lotta per ottenere l’indipendenza dalla Francia (poi ottenuta nel 1962), quando il Fronte di Liberazione Nazionale riceveva aiuti consistenti dall’Unione Sovietica. Il legame con i russi è sempre stato solido, rafforzato dalle politiche di ispirazione socialista e di pesante intervento dello Stato nell’economia. Il crollo del comunismo sovietico non ha fatto venire meno l’amicizia con Mosca, che rappresenta il principale partner nella fornitura di tecnologie militari, un rapporto molto importante se consideriamo che l’Algeria è il primo paese africano per spese militari.

L’amministrazione Trump non ha fatto eccezione, anche se la visita in Algeria del Segretario alla Difesa, Mark Esper, nell’autunno scorso, permette di fare delle considerazioni di natura strategica. Washington comincia a preoccuparsi dell’influenza della Cina, temendo che Pechino acquisisca un peso eccessivo tra Gibilterra e il Canale di Sicilia, e guarda con sospetto ai piani dei russi sulla Libia. Sono passati quindici anni dall’ultima visita di un capo del Pentagono nel più grande Paese africano. Esper ha dichiarato che gli Stati Uniti sono pronti a rafforzare la collaborazione in ambito militare e nel contrasto alle organizzazioni terroristiche, come Al Qaeda nel Maghreb islamico (AQMI), che gestisce i flussi di migranti e ogni genere di traffici illegali nelle sconfinate aree desertiche ai confini con il Sahel. Con il Marocco e la Tunisia, Esper ha firmato intese decennali di cooperazione per rafforzare le capacità operative delle forze armate e per contribuire alla stabilità dell’area.

Le ambizioni cinesi e russe obbligano anche la nuova amministrazione a non dimenticare del tutto il Maghreb. Ciononostante, più che di un’offensiva politico-diplomatica massiccia, anche i democratici si accontenteranno di lanciare dei segnali ai loro avversari: gli Stati Uniti non sono disposti a tollerare che determinate “linee rosse” vengano superate.

L’ex Segretario alla Difesa accolto in Algeria

 

A Pechino per ora interessano solo gli affari

La proiezione della Cina, almeno per il momento, si manifesta quasi esclusivamente in campo economico. Pechino ha fornito il 13% degli armamenti acquistati dall’Algeria nel 2020, ma si tratta più di una conseguenza dei rapporti di lunga data tra i due paesi e dei prezzi competitivi che del tentativo di acquisire influenza geopolitica. La Cina è stata il primo Paese ad aprire la propria ambasciata ad Algeri, pochi mesi dopo gli accordi di Evian che ne sancirono l’indipendenza.

I due Stati si sono avvicinati ancora di più all’epoca delle grandi battaglie antimperialiste e terzomondiste durante la Guerra Fredda, ma la collaborazione economica è arrivata quando la componente ideologica era stata spazzata via dalla guerra civile negli anni ‘90. La fuga delle aziende occidentali ha consentito a Pechino di mettere a disposizione la sua manodopera e la realizzazione di progetti a costi limitati. Gli investimenti cinesi si sono focalizzati nelle infrastrutture e nell’edilizia per rispondere alla pressione demografica e alle esigenze abitative delle grandi città della costa. Gli interessi nel settore degli idrocarburi sono concentrati intorno al sito di Zarzaitine, dove opera il gruppo petrolifero Sinopec.

Nel 2013, la Cina ha rimpiazzato la Francia come primo paese importatore in Algeria, ormai il sesto partner commerciale di Pechino in Africa. La recente abolizione della legge che obbligava gli stranieri a una quota di minoranza nelle imprese locali favorisce gli investimenti di Pechino, ma le tensioni politiche e la scarsa differenziazione economica inducono i cinesi a concentrarsi sul vicino marocchino.

Muhammad VI ha inaugurato una nuova stagione nei rapporti con la Cina con la sua visita del 2016 nella capitale asiatica. In quell’occasione furono siglati diversi accordi, soprattutto nei settori dell’energia pulita, dei trasporti e della logistica. Inoltre, la creazione di aree a fiscalità agevolata, soprattutto intorno al porto di Tangeri, e la firma, nel novembre 2017, di un memorandum d’intesa sulle “Nuove vie della seta” rendono il paese una destinazione ideale per imprese cinesi che vogliano spostare la produzione in Marocco per avere sbocco diretto nel mercato africano.

La Cina è però interessata principalmente al sistema di relazioni che il Marocco ha intessuto con le altre nazioni africane, costruito dall’attuale re e dal padre, Hassan II. Tale azione diplomatica, coniugata a un sistema bancario solido e ramificato in diversi Paesi dell’Africa occidentale, rappresentano le due principali ragioni dell’interesse cinese. A differenza degli europei, a Pechino interessa l’accesso che una rete di questo tipo può facilitare a mercati in rapida crescita, nonché a risorse naturali ancora da sfruttare.

La rilevanza strategica del Marocco potrebbe però essere bilanciata in futuro dalla Tunisia. Anche Tunisi ha siglato un memorandum sulle Nuove vie della seta e sfrutta la sua posizione geografica di cerniera tra Europa e Africa. Gli interessi in ambito infrastrutturale e minerario sono pochi. Ma la Tunisia potrebbe rappresentare l’hub ideale per la futura ricostruzione della Libia. Quando lo scontro tra forze rivali sarà ricomposto o portato nell’alveo della dialettica politica, l’antica colonia italiana si trasformerà in un enorme cantiere. Si tratta ancora di una prospettiva di medio-lungo periodo, ma sia i cinesi che i russi mostrano consapevolezza delle opportunità.

La frontiera libico-tunisina, non la più sorvegliata al mondo

 

Opportunità e rischi nel futuro prossimo

Da questa descrizione, emerge come il Maghreb, pur considerato molto secondario dalle principali potenze occidentali, sia invece meno trascurato dalle potenze eurasiatiche. I cinesi appaiono più lungimiranti nella valutazione delle opportunità economiche e, sebbene con azioni ancora caute, stanno gettando le basi per una presenza più visibile in futuro. Di tale azione, si sono accorti l’Unione Europea e gli Stati Uniti, che però sembrano più preoccupati da altri scenari, come il Mediterraneo orientale in cui le ambizioni turche e russe scardinano equilibri consolidati.

Contribuire alla stabilità politica e allo sviluppo economico e sociale dei Paesi maghrebini porterebbe vantaggi anche a UE e USA, sia in termini di investimenti che sul piano securitario. Facilitare l’integrazione significa gettare le fondamenta di un mercato di 90 milioni di persone, con una classe media sempre più ampia e con prospettive di maggiore potere d’acquisto.

Istituzioni più solide e maggiori efficienza militare permetterebbero all’Algeria di controllare meglio i porosi confini meridionali, dove insistono le rotte migratorie gestite da AQMI e i traffici illegali provenienti dal Sahel. La Mauritania e il Mali ne trarrebbero beneficio, privando i gruppi islamisti che spadroneggiano su parti del loro territorio di basi e manodopera.

Continuare a escludere il Maghreb dall’agenda delle priorità di politica estera, soprattutto per l’Unione Europea e gli Stati membri affacciati sul Mediterraneo occidentale, comporta il rischio di di trovarsi un giorno Cina e Russia alle porte di casa, e di dover guardare con amarezza i successi economici altrui.