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Quattro elezioni in due anni, ma ancora non c’è il dopo-Netanyahu

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La Knesset ha fallito nell’approvazione della finanziaria per l’anno corrente e, come prevedono le Leggi fondamentali di Israele, si è sciolta per andare a nuove elezioni il prossimo 23 marzo, le quarte dall’aprile 2019: il Paese è senza una legge di bilancio dal marzo 2018 e sta affrontando il terzo lockdown totale senza indicazioni sul futuro dell’economia. In un report non ancora uscito sul contrasto alla povertà (il 21% degli israeliani vive al di sotto della soglia) dell’Istituto Nazionale Assicurazioni (NII) attesta che già prima della pandemia Israele era sotto la media dei Paesi OCSE di circa 14 miliardi di euro di investimenti annuali in termini di spesa sociale: un bilancio che potrebbe essersi ulteriormente ridotto, ma per cui non sono ancora disponibili dati da parte dell’Ufficio Statistico Centrale (CBS).

In ogni caso, la quarta tornata elettorale e la diffusa instabilità politica sarebbero già costate al Paese 1.4 miliardi di euro, secondo le stime del quotidiano economico The Marker: abbastanza per sollevare un diffuso malcontento in un Paese provato, tanto dalla pandemia che dalle costanti crisi politiche, tanto che il 61% degli Israeliani si dichiarerebbe “seriamente preoccupato” della propria situazione economica (Israel Voice Index, Coronavirus, luglio 2020).

Giovani ortodossi in una strada di Gerusalemme

 

L’accordo Netanyahu-Gantz (20 aprile 2020), che avrebbe dovuto prevedere un’alternanza tra i due leader dei principali partiti al governo – rispettivamente il Likud e Kahol Lavan – è tramontato dopo appena otto mesi perché il Premier Netanyahu al momento in carica non ha tenuto fede ai termini dell’accordo, che prevedevano l’approvazione di un budget statale biennale, sufficiente per impostare la programmazione dell’economia, ma anche per garantire la rotazione e il passaggio di consegne – che, come si evince dagli Stati Uniti, non è scontato nemmeno nelle democrazie più rodate – dalla leadership di Netanyahu a quella di Benny Gantz in qualità di Primo ministro allo scadere del primo anno e mezzo di mandato. Netanyahu, secondo noti commentatori tra cui Anshel Pfeffer (Ha’aretz), non approvando il bilancio statale biennale avrebbe segnalato la sua indisponibilità alla staffetta con Gantz anche in un futuro prossimo, facendo precipitare il paese in una nuova crisi politica.

Il crollo dell’ultima coalizione di governo ha già prodotto due effetti concreti e duraturi: ha compromesso la carriera politica di Gantz, leader di Kahol Lavan, condannandolo all’irrilevanza elettorale (il suo partito è passato dai 33 seggi attuali ai circa 4 dei sondaggi) per esser ingenuamente sceso a patti con Netanyahu, e ha creato un gruppo compatto di fuoriusciti del Likud convinti che sia il Premier uscente il principale ostacolo alla ripresa di un’amministrazione stabile per il Paese. Tale gruppo si è consolidato intorno alla leadership di Gideon Sa’ar (versione israelianizzata del nome diasporico Gideon Moshe Zarechansky), ex ministro dell’Istruzione di Netanyahu nel 2008 e membro dissidente del Likud: l’unico che, nel 2019, osò sfidare il Premier nelle primarie improvvisate del partito, ottenendo il 25% dei consensi.

Sa’ar non è nuovo alle critiche alla leadership di Netanyahu, ma dato il forte sostegno accordato al premier israeliano da Donald Trump e il diffuso consenso elettorale interno al Likud, finora sarebbe stato difficile riunire le condizioni per un avvicendamento ai vertici. Tuttavia, questa volta sono emersi elementi nuovi che potrebbero avvalorare la scelta di fondare un nuovo partito, “La nuova speranza”, alla destra del Likud: con l’avvento di Joe Biden alla Casa Bianca, con una parte delle forze centriste sostenitrici di Kahol Lavan alienate dal tradimento di Gantz e una parte del consueto elettorato dei coloni alienata dal voltafaccia sulla mancata annessione dell’area C a luglio 2020, l’ostilità nei confronti di Netanyahu potrebbe essere più forte del suo carisma e del successo internazionale.

Benjamin Netanyahu e Gideon Sa’ar

 

Sa’ar intende capitalizzare su quel malcontento, proponendosi insieme come il leader che può riunire la Destra – non a casa annunciando un accordo preelettorale per la spartizione dei voti superflui con il partito di Naftali Bennet, la Destra – che può tornare ad ascoltare i coloni e proteggerli (è sempre stato ostile alla soluzione dei “due Stati”) in una fase delicata in cui a Washington siederà un’Amministrazione meno compiacente, al contempo stendendo una mano ai partiti centristi stanchi della corruzione e dell’accentuata personalizzazione politica.

Se i sondaggi sono attendibili (Channel 2, 5 gennaio), al suo debutto Sa’ar potrebbe contare già su 18 seggi ulteriormente incrementabili da qui a marzo e il suo partito si proporrebbe come l’ago della bilancia dell’unica futura coalizione di governo possibile, ovvero capace di raggiungere la fatidica soglia di 61 seggi: esso potrebbe infatti essere oggetto di potenziali accordi preelettorali con le altre forze di destra, come la Destra (Yamina) di Naftali Bennet con i suoi potenziali 14 seggi e Yisrael Beitenu di Liberman con i suoi 6, ma anche allearsi con partiti centristi come Kahol Lavan (5), Yesh Atid di Lapid (13) e il nuovo partito “Gli Israeliani” del sindaco di Tel Aviv Ron Huldai (6), tra tutti quello maggiormente schierato a sinistra. Tali partiti hanno tutti espresso la ferma intenzione di opporsi a governi a guida Netanyahu, identificando nell’ostracizzazione del premier uscente, in carica da vent’anni, l’obiettivo prioritario della loro agenda politica, ma anche puntando sullo sblocco del sistema politico israeliano fossilizzato su questo punto.

Nonostante il successo degli “Accordi di Abramo” nell’opinione pubblica israeliana, che oggi si sente molto più accettata in Medio Oriente e finalmente liberata dal complesso dell’assedio, la sfida elettorale per Netanyahu in questo quarto round si rivela maggiormente in salita: solo i partiti religiosi ultraortodossi sono rimasti fedeli al Premier, ma questo al prezzo di una certa tolleranza dimostrata nei loro confronti dalle istituzioni rispetto all’osservanza delle norme anti-diffusione Covid-19: le scuole ultraortodosse sono rimaste aperte, feste e matrimoni, sebbene illegittimi, non sono stati puniti dalle forze di polizia, con il risultato che le comunità ultraortodosse sono andate ad ingrossare le fila dei contagi, rivelando un 25% di contagiati nelle loro comunità contro il 3% della media. Un dato paradossale se si osserva come uno dei punti qualificanti dell’azione di governo di Netanyahu sia stato proprio la lotta al contagio, con l’ambiziosa campagna vaccinale gestita dal governo.

Il tutto accade mentre il terzo lockdown di due settimane in vigore dall’8 gennaio 2021) andrà a toccare pesantemente gli interessi dei piccoli commercianti, dei lavoratori dei servizi e del turismo e, in generale, di quelle classi medio-basse delle periferie del Paese che tradizionalmente costituiscono lo zoccolo elettorale duro del Likud.

Tuttavia, il risultato delle quarte elezioni israeliane non è affatto scontato: Netanyahu è oggettivamente in difficoltà, ma non ancora sconfitto e lo dimostra il suo tentativo di successo di sfaldare la Lista Unita Araba dall’interno aggiudicandosi il sostegno della sua componente più tradizionalista, il Ra’am di Mansour Abbas, sfruttando i dissapori interni ai partiti arabi tra l’anima laica identificata con Ayman Odeh e quella islamista di Abbas, maggiormente disposta a integrarsi settorialmente con la maggioranza ebraica a spese della “causa palestinese”.

Mansour Abbas (al centro in basso) vota a favore dello scioglimento della Knesset, in dicembre

 

In aggiunta, Netanyahu può ancora giocarsi i suoi successi sull’arena internazionale: ormai sono cinque gli Stati arabi o islamici (Regno hashemita di Giordania, Repubblica d’Egitto, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Sudan) legati da trattati di pace con Israele, c’è un solido fronte regionale anti-iraniano costruito insieme ai sunniti, impensabile fino a poco tempo fa e ora potenzialmente rafforzato dall’accordo del Golfo tra Arabia Saudita e Qatar. E inoltre una Turchia islamista che, moderando i toni rispetto al recente passato, chiede di reinviare il proprio ambasciatore a Tel Aviv e, in più, un’ottima gestione del conflitto siriano, con raid periodici e puntuali contro obiettivi iraniani, mai rivendicati, e che non hanno mai comportato conseguenze per lo Stato ebraico, ma anzi godono dell’assenso silente della Russia. In aggiunta, l’emergenza coronavirus ad oggi sembra favorire il Primo ministro, il cui processo è stato rinviato a data da destinarsi dal Tribunale di Gerusalemme.

Se questa dovesse essere la fine della carriera politica di Netanyahu, egli lascerà in ogni caso Israele molto più sicuro di 25 anni fa, quando assurse al potere: per quanto un nuovo asse transatlantico più coeso tra Biden e l’Europa possa profilarsi come maggiormente critico rispetto Stato ebraico, e soprattutto dei suoi velleitari progetti di proclamare la propria sovranità sulla valle del Giordano (piano che per altro riscuote ancora il consenso di oltre il 36% della popolazione), sarà impossibile tornare a prospettare la soluzione dei “due Stati” nei prossimi cinque anni ora che i parametri di Oslo sono stati definitivamente superati.

Se Biden vorrà ottenere un risultato duraturo sul dossier che più gli interessa -il ritorno degli USA nel JCPOA, il trattato sul nucleare iraniano- dovrà necessariamente mantenere un basso profilo su un argomento complesso e divisivo come pochi negli Stati Uniti, quello sui confini dello Stato ebraico. Abbastanza per prevedere che Israele e Palestina non riappariranno agli onori della cronaca nei prossimi cinque anni e che, qualunque sarà il leader che verrà eletto alle quarte o quinte elezioni israeliane, l’occupazione della Cisgiordania proseguirà indisturbata: ne è prova tangibile il varo del nuovo Masterplan 2045 del Ministero dei Trasporti, che prevede di costruire una rete capillare di autostrade che colleghino gli insediamenti urbani (tra cui rientra la discussa costruzione del nuovo quartiere di Givat Hamatos sulla Hebron Road vicino a Betlemme e della nuova base di polizia in area E1) che separeranno definitivamente Gerusalemme est dai centri urbani palestinesi limitrofi (Betlemme e Jenin).

Alcune delle iniziative più eccentriche di Trump verranno accantonate e i toni della diplomazia riprenderanno il sopravvento, ma le colonie resteranno lì, sia legalizzate che non, con oltre 70 avamposti spontanei che attendono soltanto l’assenso formale del governo per trasformarsi in nuove comunità urbane ad inizio 2021: una decisione che potrebbe rivelarsi più difficile per un Netanyahu alla ricerca di consensi arabo-religioso-centristi piuttosto che per un Sa’ar da sempre schierato per lo Stato unico.