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La presidenza degli Stati Uniti in terapia intensiva

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 Tre eventi in stretta successione hanno segnato una probabile svolta nella marcia di avvicinamento alla prossima amministrazione americana: il primo dei dibattiti presidenziali programmati (30 settembre), la notizia sulla positività di Donald Trump al Covid-19 (2 ottobre), e il dibattito tra il Vicepresidente in carica Mike Pence e la Senatrice Kamala Harris (8 ottobre). In tutti e tre i casi, i sondaggi di opinione hanno preso una direzione, favorevole al ticket democratico, che ben difficilmente potrà cambiare in modo radicale fino al 3 novembre; fatto ancora più rilevante, l’intero dibattito politico nazionale negli Stati Uniti verte soltanto su Donald Trump.

La personalità debordante del Presidente in carica ha sostanzialmente orientato e definito la campagna elettorale, quasi del tutto svuotata di contenuti, programmi e perfino promesse da parte dei candidati. La vera scommessa su cui si fonda il ticket Biden-Harris è ormai la volontà, per una netta maggioranza di americani, di porre fine all’esperienza politica di Trump. Si potrebbe osservare che le battaglie per la Casa Bianca sono sempre degli scontri di personalità; ma la differenza in questo caso è che di personalità davvero importante – su cui si conteranno i voti dal 3 novembre – ce n’è una, e una soltanto.

Donald Trump toglie la mascherina con un gesto plateale, al suo ritorno alla Casa Bianca dopo il ricovero in ospedale

 

La scelta di chiedere sostanzialmente un referendum sull’attuale Presidente è stata sua, e alla fine l’hanno accettata anche i suoi avversari, puntando su una sorta di suicidio politico per eccesso di vanità e difetto di disciplina.

Per il futuro prossimo del Paese, quel che conta di più è ciò che è accaduto in questi quattro anni alla presidenza come istituto, come simbolo di unità nazionale, come volto dell’America nel mondo. La critica più dura che si può muovere a Donald Trump è di aver mancato, troppo spesso e in modo troppo grossolano, di un vero senso delle istituzioni. E’ una responsabilità storica che porterà con sé, a prescindere dall’esito del voto di novembre e da quanto potrà accadere subito dopo in caso di contestazioni sui risultati.

Joe Biden è una figura politica totalmente diversa: pur con alcuni limiti che molti hanno rilevato nel corso della sua carriera e un certo appannamento che è emerso durante la campagna 2020, ha sempre mostrato rispetto per le istituzioni, per lo Stato, per la Costituzione. Eppure, anche lui ha subito l’influenza nefasta delle tattiche comunicative di questa campagna elettorale e del “metodo Trump” che l’ha travolta: nel dibattito di fine settembre, è caduto a volte nella trappola e ha finito per sminuire il Presidente che aveva di fronte. E ha poi sospirato perfino quel “will you shut up, man” che resterà purtroppo nelle cronache, dopo aver tentato inizialmente di rispettare l’etichetta con i rituali “Mr. President”. Non è un caso ovviamente che la sua frase successiva sia stata “This is so unpresidential”.

L’esasperazione di Joe Biden durante il primo dibattito presidenziale

 

Il punto centrale è proprio questo: l’esperienza politica degli scorsi quattro anni è stata “non presidenziale”, e lascerà un segno che non ha nulla a che fare con le politiche perseguite dal Capo dell’Esecutivo. Ha a che fare invece con i suoi comportamenti, il suo linguaggio e il suo modo di comunicare.

Le caratteristiche personali del Presidente hanno reso evidente che i checks & balances dell’impianto costituzionale americano funzionano soltanto se tutti i partecipanti al delicato equilibrio intendono in ultima analisi piegarsi alle sue regole per il bene comune; in caso contrario, il sistema porta facilmente alla prevaricazione da parte della presidenza, soprattutto ora che ha in mano il cruciale strumento della comunicazione istantanea e non filtrata. L’alternativa, come è capitato in qualche occasione e per brevi periodi anche prima del gennaio 2017, è la paralisi istituzionale, o comunque una scarsa produzione legislativa.

Ma i quattro anni di questa presidenza hanno di fatto visto entrambi i fenomeni simultaneamente: un profluvio di annunci spesso aggressivi (oltre che di messaggi di piccolo cabotaggio che hanno intasato totalmente il classico “ciclo mediatico”), e intanto una magra produzione di decisioni effettive. Perfino i vari “ordini esecutivi” a cui Trump ha fatto ricorso per aggirare gli inevitabili veti del Congresso (e a volte delle stesse agenzie federali) si sono concentrati su obiettivi di breve periodo e di scarso impatto concreto – si pensi al famoso “muro” di confine con il Messico, per cui addirittura si sono utilizzati fondi del Pentagono con effetti al più simbolici.

Insomma, mentre si avvelenava il clima politico-mediatico, la montagna della comunicazione politica della Casa Bianca ha partorito molti topolini. Le uniche vere eccezioni sono probabilmente le nomine alla Corte Suprema – che hanno realmente cambiato l’equilibrio di forze tra conservatori e moderati o liberali – e i tagli fiscali – che però hanno natura praticamente temporanea, e sono stati in certa misura sommersi dall’emergenza economica indotta dalla pandemia. Cosa resta dunque della massiccia azione “dichiaratoria” del 45° Presidente degli Stati Uniti?

Certamente resta una più intensa polarizzazione politico-ideologica rispetto al 2016, che pure era l’anno finale di un doppio mandato a sua volta piuttosto “polarizzante” come quello di Barack Obama. Soprattutto, resta il disorientamento dell’opinione pubblica di fronte a una visione del mondo incentrata su varie teorie del complotto, dalle fake news al “deep state”  fino alle presunte frodi elettorali nel caso di voto per posta.

Di nuovo, si deve sottolineare come la differenza tra il recente passato e il presente sia di tipo istituzionale, e sta infatti nel rapporto tra cittadini e istituzioni: con Donald Trump la fiducia complessiva nella presidenza come punto di riferimento del sistema politico americano è calata pericolosamente. Ne escono però indeboliti anche gli altri organi costituzionali, che sono stati risucchiati nel vortice delle accuse reciproche di complottare contro lo Stato o contro specifiche figure con cariche pubbliche: una situazione davvero senza precedenti, perfino se si pensa alle esperienze traumatiche della “caccia alle streghe” nei primi anni della guerra fredda, all’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, o alla crisi del Watergate a inizio anni ’70.

Ora si deve guardare perfino oltre, e più in profondità, rispetto alla prossima presidenza, per cercare una nuova generazione politica che avrà il duro compito di ricostruire una fiducia diffusa nelle istituzioni. Assai più che  Donald Trump o lo stesso Joe Biden, i protagonisti di questa nuova fase saranno semmai i rispettivi numeri due, e soprattutto la schiera di aspiranti leader che abbiamo osservato un po’ distrattamente nelle primarie democratiche del 2020, in quelle repubblicane del 2016, e in alcune corse per il Congresso e i governatorati.

La presidenza americana si trova in terapia intensiva, e dobbiamo tutti sperare che ne esca presto per avviare una faticosa convalescenza.