La sfida europea a USA e Cina: il “Green New Deal”
Sin dall’inizio del suo mandato, la Commissione von der Leyen ha molto insistito sulla necessità di nuove politiche economiche fondate sul rilancio dell’industria e delle filiere produttive. La svolta, quantomeno nei programmi, si basa sull’idea condivisa che l’Europa ha bisogno di innescare un percorso di crescita sostenibile per generare un nuovo equilibrio economico e sociale.
In particolare negli due ultimi anni, a seguito del forte rallentamento del commercio mondiale e della crescita stabilmente debole della UE, in Europa si è infatti preso atto del ritardo industriale rispetto a USA e Cina. Da una parte, tale ritardo è certamente dovuto all’assenza di una vera politica economica – a cui la Commissione vorrebbe appunto rimediare – soprattutto se si pensa a quanto coesi sono i mercati americano e cinese; dall’altra, è piuttosto evidente il gap che scontano le imprese europee sul piano tecnologico e, più in generale, dell’innovazione. Secondo il McKinsey Global Institute, infatti, l’85% degli investimenti in intelligenza artificiale è stato realizzato in aziende americane e cinesi. È ovvio che restare indietro sul piano dell’innovazione generi intoppi sul piano della competitività.
Per rilanciare l’industria e recuperare questo ritardo nei confronti delle due superpotenze americana e cinese, la Commissione europea sta scommettendo sul piano chiamato Green New Deal. Oggi i termini Recovery Fund e Next Generation EU hanno preso il sopravvento per dare enfasi alle misure straordinarie post-Covid, ma si tratta di nomi diversi che vengono dati alla medesima cosa: lo sforzo che l’Unione Europea sta finalmente facendo per darsi obiettivi comuni in grado di rigenerare la sua economia e di riproiettare la sua influenza nel mondo nella fase post-pandemica.
L’origine del Green New Deal
L’emergenza economica e sociale che segue a quella sanitaria è stata sin da subito occasione di intervento e di misure straordinarie da parte dell’Unione Europea (fondo Sure per gli ammortizzatori sociali, il rinnovato Quantitative Easing della BCE guidata da Christine Lagarde e, appunto, il Recovery Fund). Possiamo dire che, da questo punto di vista, la pandemia segna l’inizio di un percorso nuovo per l’Europa tanto che il 19 maggio scorso Angela Merkel commentava la proposta del Recovery Fund con queste parole: Lo stato nazione non ha futuro, la Germania starà bene solo se l’Europa starà bene.
È evidente che si tratta di una svolta importante: mai la Commissione europea si è impegnata in un accordo di questa profondità politica e in un’emissione di questa portata. Il Recovery Fund si baserà sull’emissione di titoli comuni – e quindi su un debito comune – in virtù di obbiettivi condivisi che gli stati membri si stanno dando. La globalizzazione sta cambiando verso, a dire il vero lo ha già cambiato negli ultimi tre anni per via del rallentamento del commercio mondiale e della sempre più crescente regionalizzazione dell’economia. Con i mercati americano e cinese che sanno essere rigogliosi per le rispettive produzioni, anche il mercato europeo deve trovare la giusta coesione, cosa che passa da una parte nell’upgrading della propria capacità produttiva; dall’altra, da una maggior protezione dei prodotti europei che risponda ai dazi americani e cinesi.
Storicamente, dal secondo dopoguerra a oggi, le barriere doganali – quasi sempre ispirate dagli USA – hanno avuto come effetto concreto una crescita dei prezzi dei prodotti nazionali, con una conseguente perdita di competitività internazionale e riduzione degli occupati nei settori protetti (e in alcuni casi in quelli verticalmente integrati al settore colpito). Tuttavia, l’economia è fatta di cicli, in cui stato e mercato di volta in volta ridefiniscono il loro rapporto.
La necessità di innovare l’industria – in Germania questa esigenza è molto sentita – è ciò che ha convinto Angela Merkel che è il momento di investire e che, oggi, con le sole politiche di bilancio si rischia di morire sotto i colpi delle economie più forti. Investire, naturalmente, significa anche creare opportunità per il lavoro in un momento di forte contrazione economica venuto ad aggravare un rallentamento già generale in cui soffriva, in particolare, l’occupazione industriale. E se a soffrire è l’occupazione, soffrono a loro volta mercato e consumo. Nell’ottica di rivitalizzare domanda e mercato interno – visto che l’export cala e probabilmente calerà sempre più – oggi non resta che questa strada.
Ad ogni modo, Green New Deal è terminologia importante perché anzitutto Green sarà sempre più fattore identitario, all’interno e all’esterno dei confini europei; e, in secondo luogo, perché l’aspetto del nuovo corso legato al clima è centrale. In sintesi, il Green New Deal vuole fare i conti con tre gradi trasformazioni: 1) la riconfigurazione dell’economia globale; 2) il processo di digitalizzazione; 3) il climate change.
La cosa curiosa è che l’espressione Green New Deal arriva dagli USA: nel 2019, infatti, i Democratici hanno proposto al Congresso un pacchetto così chiamato per far fronte ai cambiamenti climatici oltre che alla disuguaglianza economica, anche facendo leva sulla suggestione storica offerta dal New Deal di Franklin Delano Roosevelt che rispondeva alla grande crisi del ‘29. Ma negli Stati Uniti tutto ciò che ha a che fare con la questione ambientale – sebbene le industrie e molti Stati se ne interessino eccome – è uscito dall’agenda della Casa Bianca. E così, Green New Deal è diventato intento, per non dire programma, ben più condiviso in Europa e che potrebbe diventare anche fattore di un nuovo multilateralismo basato non solo sulle politiche ambientali ma anche su istanze che vanno dalla sanità, alle migrazioni e alla cyber security.
Dal multilateralismo al regionalismo
Vi è certamente un effetto shock della pandemia sull’economia e sulla produzione, mala crescita debole, il rallentamento del commercio mondiale, il reshoring delle produzioni, la dimensione sempre più regionale e sempre meno multilaterale degli scambi annunciavano già i cambiamenti odierni; d’altra parte, le trasformazioni della produzione in senso digitale e sostenibile che l’Europa riconosce come primarie col Recovery Fund, sono già centrali nei processi produttivi delle imprese più innovative. Le due cose sono intrinsecamente connesse: le produzioni più digitalizzate sono quelle più sostenibili.
La pandemia irrompe su scala mondiale in un momento di crescita modesta in cui, nell’ultimo triennio (2016-2019), l’attività produttiva è apparsa in rallentamento in tutte le principali aree del mondo, a cominciare dai paesi più avanzati. Il rallentamento del commercio internazionale è da una parte dovuto a ragioni congiunturali e dall’altra al venir meno delle condizioni strutturali che ne hanno favorito l’esplosione negli anni della globalizzazione. In una prospettiva di medio termine, agiscono sul rallentamento ragioni di ordine strutturale:
- l’irripetibilità del processo di offshoring;
- la fisiologica flessione della crescita cinese, dopo i ritmi vertiginosi raggiunti negli anni scorsi;
- l’emergere di tendenze protezioniste e comunque di un nuovo orientamento verso scambi di tipo bilaterale, reshoring e crisi multilateralismo (anche osteggiato perché produttore di disuguaglianze crescenti).
Il regionalismo non è comunque un fenomeno recente, pensiamo al mercato nordamericano o al mercato comune europeo, seppur meno coeso. La novità è che oggi la politica economica chiede ai mercati regionali non solo di accrescere la loro domanda interna e di favorire i loro membri, ma anche di darsi obiettivi comuni dal punto di vista della produzione.
Innovazione digitale e climate change
Il mondo va così configurandosi verso tre principali piattaforme produttive: USA, Cina ed Europa. Ma Europa, in senso industriale, significa soprattutto l’area che ruota attorno alla Germania. Per la Germania il mercato di sbocco non sarà più il mondo, come è stato finora, quanto essenzialmente l’orizzonte continentale. È dunque di interesse vitale per l’industria tedesca che i Paesi europei si riprendano rapidamente dalla crisi provocata dall’epidemia.
Il Green New Deal ha questa finalità, di rilanciare le produzioni europee, di fare dell’Europa il centro della produzione mondiale dell’auto elettrica, di andare spediti verso la carbon neutrality (2050) e l’energia pulita, nonché contribuire alla lotta al cambiamento climatico, rendendo la nostra vita e le nostre produzioni sempre meno dipendenti dai combustibili fossili e, più in generale, dalle materie prime.
La politica economica e industriale si rivelerà decisiva per l’UE. Il reshoring manifatturiero, che ha riguardato anche l’Europa oltre agli USA, è occasione che ha l’Unione di tornare a concepirsi come grande piattaforma industriale. La crisi del 2008 che aveva evidenziato le profonde debolezze del nostro sistema – a cui si era risposto per lo più con le politiche espansive monetarie delle banche centrali, all’interno della dottrina dell’austerità riservata ai governi – ci dice che oggi dobbiamo non solo salvaguardare l’esistente ma darci un orizzonte di innovazione e di sviluppo. Il Green New Deal è questo orizzonte, al quale dovrà agganciarsi anche l’Italia. La ripartenza deve necessariamente avere dei caratteri di innovazione, non avrebbe nessun senso investire le risorse disponibili se non destinandole, almeno in parte, a ciò che guarda al futuro.
Il Green New Deal ha tra i suoi obiettivi fondamentali il contenimento delle emissioni – meno 55% di co2 entro il 2030 e 0 entro il 2050 (carbon neutrality) – in linea con l’agenda ONU 2030. La terza grande traiettoria del cambiamento è appunto legata all’emergenza ambientale e al riscaldamento globale. Ciò sta cambiando i modelli di produzione, da un lato verso obiettivi di decarbonizzazione collegata alla rivoluzione energetica, dall’altro verso la riduzione del consumo di materie prime, non solo come esito del processo di digitalizzazione ma anche più legato allo sviluppo di un’economia circolare.
Naturalmente, ogni stato membro dovrà fare la sua parte; e anche l’Italia la sta facendo, seppur vi sia ancora molto da fare. Le energie rinnovabili giocano un ruolo strategico verso un futuro più sostenibile. Nella UE l’energia derivata da fonti rinnovabili ha raggiunto il 17% nel 2016. È parte degli obiettivi europei raggiungere il 30% di rinnovabili entro il 2030. Nel contenitore UE vi sono molteplici situazioni differenti: dagli Stati virtuosi come la Svezia con il 53,8%, la Finlandia con il 38,7%, la Lettonia con il 37,2%, l’Austria con il 33,5%, a Stati molto meno competitivi come Lussemburgo (5,4%), Malta e Olanda (6%). In Italia più del 18% del consumo totale di energia del Paese proviene da rinnovabili. Anche per quanto concerne l’economia circolare, In Italia si osservano progressi tra i migliori a livello europeo (49,4% di rifiuti riciclati sul totale) che ci avvicinano agli obiettivi del 2020 (50%). Oltre a ciò, è in costante diminuzione il consumo materiale interno per unità di PIL (meno 26% rispetto al 2010), cioè il consumo di risorse materiali effettuato in Italia.
Tuttavia, per raggiungere gli obiettivi comunitari e dell’Agenda 2030, da una parte è indispensabile l’impegno del sistema Paese, non solo delle industrie ma anche degli enti locali: i modelli urbani espansivi vanno rivisti con una nuova definizione del processo edilizio (la normativa urbanistica vigente in Italia è del 1942), con tecnologie per impianti che ci mettano in condizione di avvicinarci all’obiettivo del 2050, tenendo presente che le città e i centri più urbanizzati sono i luoghi di maggior concentrazione sociale.
Il compito che ha il decisore politico in materia economica è quello di creare le condizioni migliori per la crescita e di fare in modo che gli attori protagonisti dell’economia – imprese e lavoratori – le comprendano e le sfruttino al meglio. Inoltre, bisogna garantire che questa crescita sia coesa e distribuita equamente. Dentro la grande emergenza che ha colpito il mondo intero nel 2020, l’Europa non ha soltanto dato segnali importanti da un punto di vista politico, ma ha anche messo in campo misure che non erano immaginabili tempo addietro, vista l’inerzia – e anche gli errori, si pensi alla crisi greca – con cui ha affrontato la precedente recessione. Recovery Fund e Green new Deal ci autorizzano a sperare in un futuro di crescita, indispensabile per evitare l’esplosione di quel malessere sociale che potrebbe mettere in crisi la democrazia.
Per quanto riguarda l’Italia, siamo il Paese che beneficia del Recovery Fund in maniera maggiore, in termini assoluti. Sapremo sfruttare l’occasione? La debolezza delle classi dirigenti, non solo dal punto di vista politico ma anche da quello delle capacità, lascia naturalmente aperta questa domanda. L’Italia ha un’urgente esigenza di darsi una prospettiva di crescita reale che sappia rilanciare un Paese depresso. C’è di buono che il rilancio dell’industria tedesca è fattore molto importante per il nostro Paese che non solo è la seconda potenza manifatturiera d’Europa ma che è anche molto integrato proprio con la grande piattaforma teutonica.
Ancora una volta testeremo la grande dinamicità ed efficienza di quella parte del nostro sistema produttivo così inserita nel mercato internazionale, i cui prodotti generano ricadute di eccellenza all’interno delle catene globali del valore. Certo, vi è una grossa fetta di imprese che non riesce ad attivare processi innovativi, che fondamentalmente vuol dire avviare percorsi di digitalizzazione. Lontano da innovazione e digitale, sarà sempre più difficile stare sul mercato.
È importante che venga rilanciato con decisione il piano industria 4.0 che negli anni 2016 e 2017 ha permesso all’Italia di superare la stessa Germania nei livelli di crescita della produzione industriale. I comparti su cui varrà la pena di scommettere sono quelli per cui il mondo riconosce i nostri prodotti come eccellenti. In particolare: meccanica di precisione, tessile, pellami, chimico, abbigliamento, calzature, computer, prodotti di elettronica, ottica, apparecchiature elettriche, manifattura di base, prodotti in legno. Ma le vere sorprese arriveranno dai settori più vicini all’innovazione. La mobilità è completamente stravolta non solo da car sharing e car pooling, ma anche dal fatto che ci si muoverà di meno, o almeno con destinazioni diverse. A ogni modo, l’auto elettrica sarà uno dei simboli del ciclo alle porte. E l’industria italiana potrebbe giovarsene.