Un piccolo passo verso la possibile convergenza europea
Dopo quattro ore e mezza di discussione – in videoconferenza, come esigono i tempi – il risultato più chiaro dell’ultimo Consiglio europeo è stata una ritrovata concordia nei toni, più che un vero accordo sul da farsi. I 27 capi di Stato e di governo hanno assicurato di voler “andare avanti insieme”. Un modo per mettersi alle spalle almeno le risse verbali e i litigi che avevano caratterizzato la riunione del 26 marzo, preceduta e seguita da accuse, controaccuse e recriminazioni a mezzo stampa e a quattr’occhi, a cavallo della linea di un fronte politico-ideologico che per semplificare definiamo “Nord” e “Sud”.
Le pacche sulle spalle (virtuali) e i sorrisi del 23 aprile, i complimenti reciproci, salutano il superamento di un momento molto complesso per l’Unione Europea, che si è trovata di nuovo sull’orlo del fallimento, almeno dalla prospettiva italiana. L’accordo raggiunto però non nasconde che le divisioni persistono. Come attuare il piano di rilancio economico – la “povera” Europa sembra condannata da decenni ad essere oggetto di un piano di rilancio, stando al gergo politico, burocratico e narrativo dei suoi dirigenti – cioè come attuare le misure economiche post-coronavirus, e chi le pagherà, ancora non si sa. I capi di Stato e di governo sono tornati a parlarsi in maniera civile, come ha sottolineato il premier olandese Mark Rutte, ma il costo della ritrovata unità è stato quello di demandare alla Commissione ogni decisione pratica sul da farsi.
La Commissione ha ritrovato un ruolo che nelle prime settimane della pandemia le era del tutto sfuggito di mano: quello di coordinatrice della risposta alla crisi economica più grave dalla fine della Seconda guerra mondiale. Mentre il 6 marzo, nel discorso sui 100 giorni da presidente, von der Leyen nemmeno pronunciava la parola “coronavirus”, i membri della UE, in ordine sparso, finivano per scontrarsi su tutto. Proprio il governo olandese, il più contrario alle formule di solidarietà finanziaria europea, diventava il bersaglio di una pioggia di critiche (dal Sud) sintetizzate dal primo ministro portoghese António Costa: “la posizione dei Paesi Bassi è ripugnante e meschina”.
Ma ora la correzione di rotta è compiuta, probabilmente facilitata dalla significativa presa di posizione di Mario Draghi il 25 marzo; il processo informale con cui si prendono le decisioni dell’Unione Europea ha funzionato, e così in una videochiamata del 20 aprile i capi di governo di Italia, Germania, Olanda, Spagna, più von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel si erano già accordati su una linea comune che avrebbe dettato il ritmo e il risultato del summit di tre giorni dopo.
Quale risultato? Le misure d’urgenza ammonteranno a 540 miliardi di euro, cifra stabilita dai ministri delle Finanze il 9 aprile: quella riunione era durata tre quarti d’ora, ed era stata chiusa dall’applauso dei partecipanti. Anche in quel caso però il vero accordo era stato preso poche ore prima, dai ministri di Germania, Francia, Italia, Spagna e Olanda, più il presidente dell’Eurogruppo Mario Centeno, dopo il nulla di fatto di due giorni prima.
I 540 miliardi saranno forniti in parte dal MES: il Meccanismo Europeo di Stabilità, la ciambella di salvataggio dell’eurozona, potrà prestare fino a 240 miliardi, diretti a finanziarie spese dirette e indirette in materia sanitaria. Ma, come chiedeva tra l’altro l’Italia, ci saranno anche altre fonti: 100 miliardi li metterà la Commissione, e saranno destinati a coprire soprattutto i provvedimenti per chi ha perso o ha visto ridurre il proprio reddito da lavoro; gli stati dovranno raccogliere 25 miliardi in garanzia, e la misura dev’essere temporanea, ha voluto l’Olanda. Gli ultimi 200 saranno forniti dalla BEI (Banca Europea degli Investimenti), sotto forma di prestiti alle imprese, e anche questi costeranno 25 miliardi di garanzie. A queste cifre, dal 1° giugno si aggiungeranno i 750 miliardi di euro che la Banca Centrale inietterà in circolazione (cifra che secondo alcuni potrebbe raddoppiare), senza condizioni. Gli interventi non saranno condizionati a “riforme” economiche: anche su questo punto l’Olanda aveva messo il veto, poi ritirato perché nessun paese importante era d’accordo.
Visto che però è mancato qualsiasi passo ufficiale in direzione di una mutualizzazione dei costi, anche se parte dei 540 miliardi non dovranno essere restituiti dagli stati destinatari, il fronte del Sud ha ottenuto soddisfazione su un altro punto. La Commissione dovrà subito discutere un “piano di rilancio” da ricomprendere nel prossimo bilancio settennale 2021-27. Viste le circostanze eccezionali, quindi, la Commissione emetterà debito: “lo faremo per 1000 miliardi di euro per tre anni”, ha assicurato von der Leyen.
Questo è stato il punto più difficile da accettare per la Germania e soprattutto per l’Olanda; tuttavia la posizione del governo olandese è stata criticata anche in patria. Anzi, molti esperti ed economisti hanno ribadito che gli sforzi di paesi come Spagna, Portogallo e Grecia durante l’austerità andrebbero premiati. Restano molto meno apprezzate, invece, le politiche economiche di Francia e Italia, considerate sempre troppo lassiste. Il consenso di Berlino e Amsterdam è stato ottenuto grazie alla temporaneità della misura: non c’è nessun cambiamento strutturale, ma un provvedimento speciale.
Ma naturalmente dei piani d’indebitamento della Commissione non c’è ancora nulla di concreto. Si tratta di una ritirata strategica da parte del fronte del Nord, oppure Berlino, Amsterdam, Vienna, Stoccolma e i loro alleati hanno davvero accettato di spostare i termini della discussione dal se emettere debito europeo al come? E ancora, i 1000 miliardi della Commissione saranno prestati oppure trasferiti ai paesi destinatari – un po’ come già oggi accade con i Fondi Europei di sviluppo? Siate contenti di non dovervi indebitare sui mercati finanziari, dicono i governi del Nord a quelli del Sud, dove paghereste molto di più. No, una moneta unica per funzionare bene ha bisogno di bilancio, dunque di un indebitamento comune, rispondono dalle capitali del Sud, altrimenti saremo condannati alla stagnazione e alla crisi, e a nessuno gioverà. Su queste linee si deciderà la forma futura dell’Unione Europea.
Von der Leyen ha promesso che fornirà delle risposte il 6 maggio, nel nome di un “equilibrio solido” tra le esigenze dei diversi stati. Esigenze molto diverse, che divergono in realtà non solo tra membri dell’UE, tra cui in effetti le differenze nei livelli di debito pubblico e dunque nel costo di ulteriore indebitamento sono ormai enormi, ma anche tra regioni e tra categorie sociali e demografiche. Il rigorismo del nord riecheggia quello già sperimentato dopo la crisi finanziaria del 2008, quando si parlò di cicale e formiche per giustificare il no a una politica fiscale e di bilancio comune.
Stavolta, gli avvenimenti sono più complessi, il terreno su cui muoversi è meno noto; nessuno sa come si muoverà l’economia nel post-pandemia, e non sappiamo nemmeno cosa significhi davvero “post-pandemia”. Le previsioni a corto termine prefigurano uno scenario dai contorni bellici, che spiega perché la Commissione ha fatto cadere tutti i suoi tabù: il patto di stabilità, gli aiuti di stato, e l’indebitamento. Si è spesso notato che il vero motore dell’integrazione europea sono state le crisi drammatiche vissute dal continente: il coronavirus fornisce un ottimo test di verifica a questo assunto.