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Perché all’Europa servono nuovi strumenti

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Si è concluso con un nulla di fatto e un rinvio di quindici giorni il vertice UE a 27 tra i capi di Governo del 26 marzo. Doveva decidere su interventi comuni per cercare di contrastare l’emergenza economica. Lo scontro tra i due gruppi di paesi del Nord e del Sud è stato duro. La risposta negativa ma tutto sommato contenuta dei mercati è dovuta al fatto che nella stessa giornata la Banca Centrale Europea ha ufficializzato i contenuti dell’enorme programma di acquisto di titoli pubblici e privati varato per fronteggiare l’emergenza economica (il cosiddetto Pepp, Programma di acquisti per l’emergenza pandemica). Ha reso noto che non ci saranno limiti alla sua azione, in particolare riguardo agli acquisti di titoli di un singolo Stato.
L’iniziativa della BCE, nel dimostrare ancora una volta come essa resti l’unica istituzione autenticamente federale dell’Unione monetaria, servirà certamente a stabilizzare i costi e agevolare il finanziamento degli interventi dei governi europei.

Ma non ci si può illudere. Servirà a guadagnare tempo, pur se prezioso. Senza risolvere i problemi di solvibilità che a medio termine si presenteranno per singoli paesi, già gravati da elevati debiti come l’Italia, in seguito ai massicci interventi necessari. L’esigenza di strumenti comuni per finanziare le spese per l’emergenza e, successivamente, il rilancio è solo rinviata.

Ma non per molto, va aggiunto. Visto che l’Europa è ormai divenuta l’epicentro di entrambe le grandi emergenze del momento, quella sanitaria e quella economica. La sfida prioritaria è contenere la diffusione del virus e proteggere la salute e la vita di tutti. Al contempo, è necessario limitare l’impatto economico fortemente negativo della pandemia in atto, con primi ingenti stanziamenti di risorse a favore di imprese e famiglie. La consapevolezza diffusa è che la posta in gioco sia davvero alta. Una vittoriosa battaglia comune contro la terribile epidemia rafforzerebbe enormemente l’Unione europea e la zona euro, unitamente al processo d’integrazione. Altrimenti, altrettanto elevato è il rischio di indebolire fortemente il progetto europeo, mettendone a rischio il futuro.

L’enorme costo della crisi

Al riguardo, l’inizio della crisi non è stato affatto rassicurante. Le istituzioni comunitarie sono parse esitanti, addirittura poco interessate, di fronte ai primi casi significativi di coronavirus, manifestatisi soprattutto in Italia. E i singoli paesi membri si sono affrettati a adottare misure e iniziative rigidamente nazionali, le più disparate. Ma c’è stato un cambio di passo. La Commissione ha proposto la sospensione del Patto di stabilità e le regole sugli aiuti di Stato, dando possibilità ai governi di spendere liberamente ben oltre il fatidico 3% del deficit per contrastare l’epidemia. Ed è venuta, poi, la clamorosa svolta della Banca centrale europea che ha varato, dopo alcune esitazioni iniziali, il nuovo piano di acquisti per oltre mille miliardi sul mercato di titoli pubblici e privati (il citato programma Pepp).

La mossa della Bce non toglie certo l’esigenza di enormi risorse pubbliche per fronteggiare la crisi. Già in questa fase d’emergenza le prime valutazioni parlano di cifre oscillanti tra il 10 e il 20% del PIL dei paesi. Senza contare che altre ingenti risorse pubbliche serviranno nella fase della ricostruzione, alla fine del contagio. Soprattutto per avviarla e sostenerla, con politiche macroeconomiche espansive e massicci incentivi sotto varie forme agli investimenti pubblici.

Lo scontro Nord-Sud

La stessa BCE ha sottolineato la necessità di associare ai suoi interventi misure fiscali coordinate da parte dei governi nazionali e delle istituzioni europee. In primo luogo, per sfruttare le esternalità positive tra paesi che un tale strumento d’intervento produce di fronte a uno shock simmetrico, come quello in corso. In secondo luogo, perché le capacità finanziarie dei paesi europei sono molto diverse. L’Italia e altri paesi del Sud Europa, rischiano, in tempi più o meno brevi, problemi di solvibilità sotto il peso dei nuovi debiti. Per l’Italia, secondo alcune prime simulazioni, si parla della possibilità nello spazio di un paio di anni di aumenti dello stock di debito che lo porterebbero ben oltre il 150%. Così da creare le condizioni per un’altra crisi finanziaria dell’euro, dopo quella del 2011-2012.

Su come rispondere all’impatto economico del coronavirus si è aperto in Europa un aspro confronto tra paesi, che ha riproposto contrapposizioni e schieramenti noti da tempo. Da una parte, il gruppo dei paesi rigoristi del Nord, guidati da Germania e Olanda, da sempre contrari a qualsiasi condivisione di rischi e messa in comune di risorse. L’unica disponibilità mostrata è a favore di interventi del Meccanismo europeo di Stabilità (MES), ma da associare alle tradizionali condizionalità.

Dall’altra, un secondo gruppo animato dall’Italia e altri paesi del Sud, a cui si è aggiunta in questa fase la Francia, favorevole a una sorta di emissione speciale di titoli di debito comuni a lungo termine, nella fattispecie dei “coronabond”, da usare per finanziare in comune spese sanitarie e altri provvedimenti legati all’attuale emergenza sanitaria.

La contrapposizione, come altre volte in passato, resta netta. Mai come ora l’Europa è apparsa spaccata su come affrontare la crisi economica. Continua a pesare la scarsa fiducia tra i due gruppi di paesi, un’eredità della crisi dell’euro del 2011-2012. A rinfocolare la divisione si è aggiunta, più di recente, l’ascesa di due opposti populismi in Europa: l’uno alimenta nei paesi del Nord i timori di dover pagare alla lunga i debiti dei paesi più poveri e l’altro nel Sud denuncia, per converso, l’egoismo dei paesi ricchi e la totale mancanza di solidarietà dell’Eurozona.

Un possibile compromesso

A questo punto bisogna evitare che ognuno resti fermo nel recinto delle proprie rivendicazioni, come successo nell’ultimo summit. Per quanto i margini siano esigui, va trovato un compromesso. Potrebbe avvenire lungo la strada già individuata, ovvero linee di credito precauzionale del MES a favore dei vari paesi dell’eurozona, con scadenze a medio lungo termine e condizionalità minime legate solo alla gestione dell’emergenza sanitaria, senza alcuna penalizzazione, di conseguenza, per i Paesi che vi facciano ricorso.

Di fronte a tali contenuti dovrebbe cadere anche il veto posto a priori dall’Italia sul ricorso al MES. Ma i limiti di una tale soluzione derivano proprio dalla natura istituzionale del MES, che non può evitare un aumento del debito pubblico dei paesi che lo utilizzano, ed è in grado, comunque, di mobilitare risorse nel complesso modeste, soprattutto nel caso di paesi come l’Italia. Andrebbe di conseguenza inteso e presentato solo come un primo passo verso interventi comuni più impegnativi. Rappresentati da bond comuni, ad esempio, che restano probabilmente l’unica strada per sostenere l’impatto della drammatica crisi in corso e finanziare quel grande piano di rilancio della crescita reale dell’Europa che sarà necessario nella fase della ricostruzione.

Visto che ci vorrà del tempo per implementare una tale proposta che deve tener conto dei veti esistenti, si potrebbe conferire un formale incarico ai massimi rappresentanti delle istituzioni europee perché ne definiscano i contenuti, da sottoporre poi alla decisione dei paesi.

Ci sono due settimane di tempo, ma per un tale compromesso sarà decisivo, in un’Europa comunque priva di adeguate leadership, il ruolo della Germania e di Angela Merkel, che pur se indebolita guida il Paese che resta il vero ago della bilancia europea. E’ sì allineata con il fronte rigorista del Nord e ha blindato in questi giorni con un maxipiano d’intervento il suo sistema produttivo e finanziario, ma continua a temere le ripercussioni sulla tenuta dell’intera zona euro di possibili crisi di paesi del Sud, soprattutto l’Italia. Sul fronte di una diffusa crisi bancaria, qualora si rimettesse in moto quella micidiale spirale perversa (doom loop) che portò nel 2011-2012 dalla crescita degli spread all’aggravarsi dei bilanci delle banche che detenevano i titolo pubblici nei loro portafogli.

Le condizioni dei sistemi bancari sono oggi decisamente migliorate, ma l’incompletezza dell’Unione bancaria europea potrebbe contribuire all’esplosione di una nuova crisi. Tanto più se la BCE venisse lasciata sola a sopportare il peso del finanziamento dell’emergenza economica, spingendola verso acquisti forzati di quantità illimitate e sproporzionate di titoli sovrani di singoli Paesi, in primo luogo dell’Italia. Staremo a vedere, anche perché siamo di fronte a una crisi strutturale e dai costi enormi. E alla lunga non ci si potrà permettere una mancanza di coesione e unità in Europa. Sarebbe un regalo troppo grande a coloro che sostengono – e sono in crescita – che l’Unione europea sia tutto sommato inutile.