L’America divisa a metà che si guarda allo specchio
Nell’aula della Camera di Washington, D.C., l’America si è vista allo specchio quando il Presidente ha rifiutato di stringere la mano alla carica che formalmente lo ospitava, Nancy Pelosi, la quale in tutta risposta ha stracciato il testo del discorso di Donald Trump.
Il tradizionale intervento presidenziale sullo State of the Union non poteva arrivare in un momento più complicato: la procedura dell’impeachment al Senato è tecnicamente ancora aperta ma segnata nel suo esito (con la chiusura del caso senza un vero processo); le primarie Democratiche sono in pieno svolgimento tra il caos organizzativo dell’Iowa e i primi verdetti che potrebbero giungere già nel New Hampshire; il virus di origine cinese sta destabilizzando l’economia mondiale offrendo una sorta di anteprima estrema di come potrebbe essere un mondo “deglobalizzato” o dominato da uno scontro diretto tra Washington e Pechino.
Il Presidente Trump ha scelto uno slogan positivo, come si addice a un incumbent che cerca la rielezione: “the great American comeback”. Ha così puntato sui risultati economici – a suo dire, senza precedenti – e sul senso di orgoglio nazionale. Rispetto al primo punto, la situazione è meno rosea di quanto appaia nel discorso, ma gli stessi elettori Repubblicani ne sono ben coscienti e comunque ripongono più fiducia in questo leader che in qualsiasi alternativa proposta dai Democratici. Sta qui la grande forza del Partito del Presidente, che mai come ora è totalmente schiacciato sulla figura del Comandante in Capo: sebbene la crescita del PIL sia quasi identica a quella degli anni di Obama, sia stata stimolata da un taglio fiscale che ha aumentato il debito pubblico senza rispettare le promesse sulle nuove infrastrutture, e intanto frenata dallo scontro dei dazi con la Cina, il sostegno per Trump è praticamente invariato dal 2016.
E’ probabile che la società americana abbia ormai scarse aspettative di miglioramento delle condizioni complessive di vita, e con buone ragioni. Lo dimostra ad esempio la quasi-recessione in cui versa il settore manifatturiero (proprio quello su cui puntava “America First”); è vero anche che l’occupazione è a livelli altissimi, ma la qualità dei nuovi posti di lavoro è relativamente bassa. In estrema sintesi, il quadro economico è buono – non straordinario – e carico di incertezze strutturali. Il Presidente in carica riuscirà comunque a farne un trampolino elettorale per il prossimo novembre, a meno che i Democratici non presentino un’immagine del futuro che ispiri fiducia e speranza.
Quanto al quadro internazionale, il messaggio principale contenuto nello State of the Union è che l’America ha fatto finalmente valere la sua forza negoziale ed è nuovamente “rispettata” all’estero. Dalla prospettiva europea – cioè di tradizionali alleati con profondi legami politici e culturali – possiamo permetterci di dissentire decisamente. Un leader ha tutto il diritto di presentare l’immagine migliore del proprio Paese, ma non può parlare a nome del resto del mondo: il rispetto, il prestigio, l’affidabilità (concetti sempre difficili da misurare) non sono davvero criteri che Trump dovrebbe menzionare nel rivolgersi alle sue controparti internazionali. Le reazioni migliori che otterrebbe sarebbero sarcastiche.
Sul piano interno, gli Stati Uniti sono, ormai da diversi anni, una società spaccata dalle divisioni che il Presidente, da una parte, e i suoi avversari Democratici, dall’altra, hanno continuato ad alimentare. La campagna presidenziale di questi mesi non può certo favorire un clima più disteso, e infatti i toni dello scontro politico sono cresciuti. Con l’aggravante che i principali candidati alle primarie del Partito Democratico stanno ancora ricercando un messaggio semplice e chiaro da contrapporre a quello di Donald Trump, ma intanto ne attaccano frontalmente sia la personalità e lo stile sia quasi tutte le scelte politiche.
In sostanza, a fronte dell’America dipinta dal Presidente non si intravede uno scenario alternativo a cui si possano aggrappare gli elettori che comunque non voteranno per lui. Troppe le differenze tra candidati come Bernie Sanders (che appare chiaramente come l’avversario preferito da Trump) e Joe Biden, e troppe le incertezze su dove si collocherebbe davvero Elizabeth Warren se vincesse le primarie. I sondaggi incoraggianti per il giovane e dinamico Pete Buttigieg – che manca di qualsiasi esperienza a livello nazionale – mostrano soprattutto i dubbi che, almeno per ora, hanno gli elettori sugli altri candidati in lizza.
La grande sfida per i Democratici resta l’indicazione di un candidato che raccolga quasi tutti i voti potenziali, e tenga sotto la “tenda larga” del Partito sia la sua anima più contestatrice sia quella moderata – in attesa di valutare anche le chance elettorali di Michael Bloomberg che spera probabilmente di presentarsi come il salvatore della patria, forse non amato ma funzionale come anti-Trump.
In un contesto del genere, il Presidente – come era largamente prevedibile – continua a mobilitare il suo naturale elettorato ignorando quasi del tutto il ruolo unificante che può svolgere la Casa Bianca. Intanto, prevale la confusione e lo sconforto in quella maggioranza di americani – perché di maggioranza si tratta – che lo ritiene inadeguato alla sua carica per le ragioni richiamate al Congresso durante l’impeachment.
A fare da sfondo ai dibattiti dei prossimi mesi vedremo comunque l’ombra di un vero scontro costituzionale, che il voto di “acquittal” del Senato non potrà certo cancellare. Donald Trump è stato accusato di abuso d’ufficio nello svolgimento del suo ruolo di rappresentante del Paese in politica estera; i sondaggi d’opinione, e le stesse dichiarazioni dei Repubblicani al Congresso, mostrano che l’America è spaccata, eppure in maggioranza considera chiaramente inappropriate alcune decisioni assunte dal suo Presidente. Non è certo un sintomo di salute politica per il Paese più influente del mondo.