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Il conflitto che continua in Sudan, tra rischio di guerra civile e interessi internazionali

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I gruppi di opposizione sudanesi delle Forze per la Libertà e il Cambiamento (FCF) e le autorità del Consiglio Militare di Transizione (TMC) che reggono il Paese si preparano a tornare al tavolo negoziale. Ciò avviene dopo la sospensione dello sciopero generale, indetto dalle forze di opposizione in risposta alla sanguinosa dispersione, il 3 giugno, dei manifestanti accampati da mesi davanti al quartier generale dell’esercito nella capitale Khartoum. Un’inaudita violenza dal bilancio di almeno 120 morti, secondo stime del Comitato centrale dei medici del Sudan, mentre numerosi cadaveri continuano ad essere ripescati nel Nilo. Esercito e milizie paramilitari incluse le Forze di supporto rapido (RSF), cappeggiate da Mohamed Hamdan “Hemedti” Dagolo, ex-comandante delle milizie jihadiste Janjaweed, accusate di crimini di guerra nel Darfur, sono tra i primi responsabili del massacro.

La protesta, pacifica, aveva preso il via dopo la presa del potere del consiglio militare, successiva alla deposizione del presidente Omar al-Bashir l’11 aprile scorso. Gli oppositori, risoluti, chiedono il passaggio del potere ai civili dopo oltre trent’anni di dittatura militare guidata da al-Bashir. Tuttavia, i militari possono contare sull’appoggio dietro le quinte di Arabia Saudita, Emirati Arabi ed Egitto, interessati al mantenimento dello status quo.

Il portavoce del Consiglio Militare ha ammesso la responsabilità del TMC nello sgombero della protesta il 3 giugno

 

Tre giorni di disobbedienza civile avevano paralizzato il paese. Strade vuote, negozi sbarrati, banche, aeroporti e porti chiusi, trasporti pubblici pressoché fermi. Dopodiché, il movimento dei contestatori ha accettato, con molta cautela e grazie alla mediazione del primo ministro etiope Abiy Ahmed, di riprendere il dialogo sulla formazione di un consiglio transitorio con i generali al potere, che a loro volta hanno acconsentito a rilasciare un numero imprecisato di prigionieri politici.

Il TMC aveva infatti in precedenza annunciato la fine dei negoziati con l’opposizione, accusata di fomentare il caos e di voler escludere a priori qualsiasi ruolo dei militari nel governo transitorio, e il voto entro nove mesi. La piazza invece chiedeva una transizione di almeno tre anni.

Nonostante la tregua però, le truppe delle RSF, formate in larga parte da milizie Janjaweed, controllano la capitale. Alla tensione si aggiunge l’incertezza: non ci sono dettagli su date e contenuti del negoziato. Per di più, non è chiaro se le richieste dei civili di un’inchiesta sul massacro avvenuto con lo sgombero della protesta e dell’assunzione di responsabilità da parte della giunta verranno accolte.

Sembrava che le due parti avessero trovato un accordo lo scorso mese: un governo civile, una transizione della durata di tre anni e un parlamento per due terzi in mano alle opposizioni. Ma i colloqui si sono bloccati a metà maggio su chi avrebbe presieduto il consiglio per supervisionare la transizione verso le elezioni. Le FCF restano in guardia e invitano alla mobilitazione. L’associazione dei professionisti sudanesi (SPA), anima delle proteste fin dall’inizio, esorta i cittadini a tenersi pronti a un’eventuale ripresa dello sciopero.

I sostenitori regionali della giunta militare (Arabia Saudita, Emirati Arabi ed Egitto), comunque, stanno facendo pesare il loro appoggio. Qualche giorno prima della violenta repressione delle proteste, i leader militari sudanesi Abdel Fattah al Burhan, capo del TMC, e il suo vice Hemedti rendevano visita ai tre Paesi che sin dall’inizio della transizione hanno manifestato generoso sostegno finanziario e politico al Consiglio militare.

Nel mese di aprile, il governo saudita e quello emiratino avevano concesso aiuti per 3 miliardi di dollari (cibo, medicine, petrolio) e 500 milioni per dare ossigeno al sistema finanziario sudanese. In cambio, dalla giunta hanno ottenuto la convalida dell’impegno militare di Khartoum nello Yemen, al fianco della coalizione arabo-sunnita a guida saudita contro i ribelli Houthi (appoggiati dall’Iran). Tra gli obiettivi principali della politica estera di Riyad e Abu Dhabi c’è infatti il contenimento dell’influenza iraniana in Africa orientale.

Il Sudan è un paese di primaria importanza per l’intera area geopolitica anche dal punto di vista agricolo e alimentare: essendo i paesi del Golfo poveri di terreni adatti all’agricoltura, Riyadh e Abu Dhabi hanno investito fortemente nelle coltivazioni sudanesi.

Vari analisti osservano, inoltre, che sia l’Arabia Saudita che gli Emirati Arabi non simpatizzano in generale per i movimenti popolari preferendo, al contrario, sostenere regimi autoritari e militari come hanno fatto con quello di Al-Sisi in Egitto. La repressione delle rivolte sociali serve anche a scongiurare l’ascesa al potere di movimenti vicini alla Fratellanza Musulmana, associazione politica considerata addirittura un movimento terrorista dalle monarchie saudite. Dunque, il sostegno alla giunta militare serve ad Arabia Saudita ed Emirati a garantire che il Sudan resti nella propria sfera di influenza.

Anche l’Egitto di Al-Sisi vede la giunta militare del dopo-Bashir come un baluardo contro i Fratelli Musulmani, acerrimo nemico del regime egiziano ma dalla presenza sempre molto attiva in Egitto. Lotta anti-Fratellanza culminata nella cacciata dell’allora presidente Mohamed Morsi in un colpo di stato militare a luglio del 2013, e nella brutale repressione delle manifestazioni a sostegno del presidente deposto.

Come conferma Jacqueline Burns, analista presso la RAND Corporation e specialista del Sudan, “Il TMC (…) sta probabilmente programmando di rimanere al suo posto per i prossimi mesi, contando sul sostegno esterno, fino a diventare gradualmente un interlocutore legittimo (di fatto)”.

A suo parere, stante il continuo sostegno di Riyad, Abu Dhabi e Il Cairo, c’è da dubitare che la comunità internazionale abbia la capacità di provocare la caduta  della giunta sudanese.

Eric Reeves, analista  dell’università di Harvard, ritiene che la “vera pressione esterna”, per essere efficace, dovrebbe arrivare da una coalizione di paesi occidentali che godono di una certa influenza sui tre stati arabi, più che dalle Nazioni Unite o dall’Unione Africana (UA). Il consiglio militare non sembra infatti curarsi neanche della recente sospensione, a fronte dei massacri di civili, della membership del Sudan nell’organizzazione panafricana.

Nella prima metà di giugno, il Vicesegretario di Stato USA per gli Affari africani, Tibor Nagy, insieme a Donald Booth, da poco nominato inviato speciale degli Stati Uniti in Sudan, ha condotto dei colloqui con i vertici del TMC e delle FCF nella capitale sudanese nel tentativo di promuovere la ripresa del dialogo tra i dirigenti militari e l’opposizione. Nagy e l’ambasciatore Booth hanno sollecitato il presidente del TMC Burhan a fermare le violenze contro i civili, a ritirare i militari da Khartoum, ad avviare un’indagine indipendente sul massacro del 3 giugno e sulle altre violenze recenti, a sospendere la censura online e garantire la libertà di parola e stampa.

Jacqueline Burns, ex consigliere in strategia e negoziati dell’inviato speciale USA a Khartoum, ha accolto la nomina del nuovo inviato americano come passo diplomatico necessario alla mediazione in Sudan, incoraggiando un maggior coinvolgimento da parte dell’amministrazione Trump, che finora ha avuto un ruolo perlopiù inattivo nel Paese.

L’entrata in gioco della diplomazia americana è motivata dalla comprensione che, se l’attuale situazione in Sudan si evolvesse in guerra civile, l’intera regione correrebbe il rischio di implodere. Per la Casa Bianca e il Pentagono, la lotta contro il terrorismo passa in secondo piano rispetto alla necessità di contenere i due grandi avversari (Russia e Cina). D’altra parte, Washington ritiene che, sebbene il potere del TMC possa essere diminuito e controllato, sia impossibile bypassare il suo ruolo. Gli USA hanno dunque deciso di appoggiare la proposta del premier etiope di un Consiglio Sovrano composto da 15 membri di cui 8 civili e 7 militari con alternanza alla Presidenza.

L’Etiopia è percepita dalle forze di opposizione come un mediatore ambiguo, a causa delle dichiarazioni del premier etiope apertamente sbilanciate a favore dei gerarchi militari. Abiy ha voluto riconoscere, infatti, il ruolo di garante della sicurezza nazionale del TMC nella fase di transizione alla democrazia.

Nei giorni scorsi, l’Arabia Saudita e gli Emirati sembravano aver subito pressioni dall’alleato americano tali da dover prendere parziale distanza dalla giunta militare di Khartoum, e invocare un governo transitorio composto da civili e tecnocrati. Prudente silenzio da parte di Al-Sisi. Malgrado la condanna a livello internazionale post-massacro e i tentennamenti degli alleati arabi, il TMC sta temporeggiando per poter continuare a portare avanti la sua “contro-rivoluzione”. In un’analisi per il quotidiano digitale L’Indro, Abdelwahab El-Affendi, direttore della dipartimento Scienze Sociali presso il Doha Institute for Graduate Studies scrive: “Benché il Transitional Military Council si sia posto fin da subito come protettore del popolo e garante della sicurezza nazionale, facendo credere di voler colpire i leader del vecchio regime e sostenere il passaggio alla democrazia, i generali di Bashir hanno sempre lavorato per soffocare la rivoluzione.”

I sudanesi non si sono accontentati della cacciata dell’ex-presidente, né accettano il governo militare di transizione. Vogliono che gli eventi abbiano una vera portata rivoluzionaria, cioè che culminino nella creazione di un governo civile. Finché non vi sarà un governo slegato dall’influenza dei generali a rappresentare il popolo del Sudan, la rivoluzione sarà incompleta.

Un murale pro-rivoluzione a Khartoum

 

Ma ad offrire appoggio ai generali sudanesi non ci sono solo i potenti vicini da Arabia Saudita, Emirati ed Egitto: due potenze mondiali, la Cina e la Russia, hanno forti interessi su Khartoum. Pechino è il principale importatore di petrolio sudanese (e anche di quello sud-sudanese) e partner economico di spicco: investe in infrastrutture primarie e vende beni di consumo e armi, con una presenza capillare che arriva fino al Sudan del sud. Mosca è legata al Sudan da accordi militari che includono il trasferimento di armi, brevetti militari e l’addestramento del personale. In aggiunta, secondo un rapporto segreto pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian nei giorni scorsi, la Russia starebbe svolgendo una precisa strategia diplomatica per estendere la sua influenza politico-militare in Africa, in cerca di nuovi alleati. Intrattenendo buoni rapporti con Khartoum, sia la Russia che la Cina puntano a una transizione in continuità con il vecchio regime, non avendo alcun interesse ad un governo civile.

La posizione russo-cinese pesa nelle istituzioni internazionali. All’ONU, il veto di Mosca e Pechino nel Consiglio di Sicurezza ha bloccato una risoluzione contro il TMC promossa da alcuni paesi europei -Belgio, Gran Bretagna, Francia, Italia, Paesi Bassi, Polonia e Svezia.

L’attuale situazione in Sudan rimane fragile e confusa. Entrambe le parti mostrano intransigenza e la giunta militare, che intanto rompendo gli accordi ha convocato unilateralmente le elezioni, non sembra disposta a una soluzione consensuale della crisi.

Il grande timore è rappresentato dalle profonde divisioni presenti all’interno delle forze armate e lo scontro di potere tra l’esercito regolare e le forze paramilitari. Se questo dovesse intensificarsi, potrebbe scatenare un conflitto generalizzato con i civili colti nel mezzo: il rischio di una guerra civile non è ancora accantonato.

Se gli agenti esterni continueranno ad interferire nella crisi sostenendo -politicamente o finanziariamente- la giunta sudanese, si potrebbe prospettare la restaurazione di un regime autoritario, lo scenario egiziano che le opposizioni sudanesi sono fermamente determinate ad evitare.