I curdi iracheni nel calderone regionale
Con la riapertura degli aeroporti curdi ai voli internazionali e un (fragile) accordo sui salari e sul petrolio può dirsi conclusa, almeno in termini formali, la crisi apertasi tra il Governo centrale di Baghdad e la Regione autonoma curda in Iraq, scaturita dal referendum del settembre scorso. È, forse, l’unica buona notizia che ha accompagnato i curdi in questo Newroz, il capodanno, segnato dai drammatici eventi di Afrin, con la fuga di migliaia di curdi orientali (siriani) dalle proprie abitazioni verso est, nei territori sotto la protezione delle milizie curde nel nord della Siria (YPG).
Eventi che si affiancano, dopo pochi mesi, alla ‘presa’ di Kirkuk da parte delle forze lealiste irachene e delle milizie sciite e dai recenti bombardamenti turchi, condannati anche dal governo di Baghdad, nel nord dell’Iraq, ufficialmente per colpire postazioni del PKK (l’organizzazione politica e paramilitare curda, per Ankara terrorista, basata nella Turchia sudorientale).
Resta, invece, aperta la crisi politico-istituzionale tra le forze curde: ad oggi la Regione (KRG) non ha un Parlamento funzionante, il Presidente della Regione autonoma, Mas’ud Barzani, si è dimesso a fine ottobre 2017, restando, tuttavia, a capo della cosiddetta Leadership politica, organismo non previsto dal diritto della KRG ma creato subito dopo il referendum di settembre. Resta in carica solo il Primo ministro, parente di Barzani, e, al momento, non sono previste elezioni né per il Parlamento né per la Presidenza: la crisi politica, con la conseguente delegittimazione delle istituzioni curde, è destinata a proseguire.
Il referendum, dunque, è costato carissimo ai curdi, che hanno perso innanzitutto la sovranità su Kirkuk, passata, come ricordato, sotto controllo iracheno già ad ottobre. In più, hanno dovuto nei fatti ‘congelare’ la questione dell’indipendenza, smentendo così la tesi di Barzani della legittimità, nel quadro dell’accidentato federalismo iracheno, di un referendum unilaterale ma non vincolante (una mossa, come già ricordato su queste pagine, di politica interna, dunque, più che di politica estera). In realtà però, il conflitto con Baghdad ha permesso all’attuale leadership del PDK (Partito democratico del Kurdistan) di guadagnare, ancora una volta, tempo, procrastinando ulteriormente e sine die la questione della legittimità delle istituzioni della regione ed evitando il giudizio di un voto popolare locale.
Allo stallo politico si aggiunge quello economico, con la durissima crisi che soffoca la regione e che ha, negli ultimi mesi, visto aumentate a dismisura gli scioperi e le mobilitazioni dei lavoratori per il pagamento dei salari e contro la corruzione dilagante. «La frammentazione dell’opposizione politica non può nascondere la debolezza dei partiti tradizionali, PDK e UPK, che non riescono più a contenere l’insoddisfazione dei cittadini della Regione» afferma Sardar Aziz, PhD all’Università di Cork e consigliere giuridico del Parlamento curdo.
Tuttavia, fino alle elezioni politiche irachene di maggio non dovrebbero esserci sostanziali novità: l’attuale leadership politica curda vicina a Barzani punta a inviare al Parlamento di Baghdad propri rappresentanti, mentre (come è d’abitudine) l’opposizione, divisa, farà lo stesso da Suleimaniyya. Solo in base all’esito delle elezioni sarà possibile provare a ipotizzare una fase di nuovo consolidamento democratico per la regione autonoma: per paradosso, la rilegittimazione delle istituzioni curde potrebbe realizzarsi, dopo il referendum, solo all’interno di un quadro costituzionale dello Stato unitario iracheno. Tuttavia, come Sardar Aziz ricorda: «Certamente il risultato elettorale di maggio sarà importante per la Regione, che potrebbe trovarsi a fronteggiare nuove pressioni del governo federale, anche con una componente curda. Ma solo nuove elezioni del Parlamento curdo possono riaprire realmente un processo di rilegittimazione istituzionale e superare la crisi politica».
L’accordo con Baghdad è fondamentale per l’attuale leadership curda: privata della questione nazionale, con la quale aveva compattato la popolazione nel corso del referendum, alla vecchia guardia serve ora poter disporre della collaborazione proficua con Baghdad per riportare un minimo di normalità nella Regione e, soprattutto, disporre delle risorse necessarie per pagare, finalmente, gli stipendi (tra cui quelli di insegnanti, medici, etc.); anche perché la fine della guerra con lo Stato Islamico ha ridotto sensibilmente la capacità della leadership curda di chiedere e ottenere risorse da America ed Europa.
A favorire l’accordo tra Baghdad e Arbil, che indubbiamente contribuisce a rasserenare il clima in attesa delle elezioni di maggio, è stato il lavoro silenzioso ma costante della Russia, che da tempo guarda con interesse alla Regione autonoma e che sembra aver sviluppato una strategia di controllo e gestione di tutta l’area del Levante. Una strategia di lungo periodo che non mira soltanto alla gestione del greggio e degli idrocarburi ma che si serve anche dei propri giganti economici quali strumenti diplomatici per facilitare l’intesa e a stabilire un principio d’ordine: in questo modo il colosso petrolifero statale russo Rosneft, ad oggi il principale investitore straniero nella Regione curda, ha mediato tra il governo federale e quello locale, con le opportune pressioni perché si trovasse un accordo e gli investimenti russi fossero tutelati, con vantaggio immediato soprattutto per il governo di Arbil.
Oleodotti e giacimenti petroliferi tra Iraq, Kurdistan iracheno, Siria e Turchia.
Anche l’illegittimo intervento militare turco, la cui prosecuzione (ufficialmente Afrin è stata raggiunta dalle forze turche il 18 marzo scorso) potrebbe costituire un serio e preoccupante precedente, dovrà essere valutato alla luce della complessiva situazione mediorientale. Il modello a cui Mosca lavora attivamente per la Siria è quello di una disposizione istituzionale federale sul modello iracheno, cioè di uno stato federale con una (sola) regione autonoma, dotata tuttavia di margini di autonomia piuttosto ampi, fino a parlare, secondo alcuni, di una confederazione tra due entità statuali. Se è vero che il ripopolamento dei cantoni siriani curdi con i profughi (prevalentemente arabi) oggi in Turchia potrebbe essere una soluzione ben vista da Damasco e da Bashar al-Assad, le manovre militari turche, estese anche al nord Iraq, rischiano però di destabilizzare ulteriormente l’area, oltre ad aprire nuovi scenari geopolitici ed una crisi umanitaria enorme se l’attacco dovesse proseguire verso oriente.
Se, infatti, fin qui la strategia turca è stata accettata (tollerata) dalla Russia, un prolungamento dell’offensiva potrebbe mettere in discussione l’asse tra Ankara e Mosca. Se il governo turco volesse restare in Siria, aumentare la propria influenza sull’intero Levante (uno degli obiettivi accarezzati da Ankara all’inizio della guerra in Siria) o, come le operazioni in Iraq del nord lasciano supporre, evitare l’unificazione dell’area curda siriana e quella irachena, potrebbe scontrarsi con i piani russi e siriani per il futuro della Siria.
Proprio per queste ragioni, dopo aver condotto la guerra in Siria e accresciuto la sua influenza in Iraq, la Russia sa di dover ‘vincere la pace’ nei prossimi mesi: Mosca potrebbe attivare tutti i suoi canali per stabilizzare l’area. In Siria, dopo aver salvato il regime di Assad, tramite una nuova costituzione federale, che potrebbe garantire ai curdi siriani una (relativa) indipendenza. Allo stesso modo in Iraq, tramite Rosneft, la Russia ha favorito l’accordo tra Baghdad e Arbil, in particolare sulla gestione del greggio: si sta verificando una sostanziale vittoria di Baghdad, che ha ottenuto il riconoscimento, almeno formale, di essere l’unica titolata a trattare la vendita del greggio iracheno, segnando così, almeno temporaneamente, un chiarimento dell’accidentato federalismo iracheno.
La chiusura del cerchio, tuttavia, passa, per i progetti russi anche attraverso la conclusione dell’esperienza militare turca, ovvero la sua integrazione all’interno dello schema russo, e, ovviamente, una intesa con Washington. Per i curdi iracheni invece, la prospettiva è legata, ancora una volta, alla capacità di modificare l’attuale quadro politico interno, di rilegittimare le istituzioni e di praticare l’autogoverno regionale in condizioni di normalità ora che la guerra con lo Stato Islamico è, formalmente, finita. Ma la normalità, al momento, appare estremamente lontana.