Transizioni presidenziali: “un pacifico trasferimento di potere”
Nel 1800 fu eletto presidente Thomas Jefferson, che oggi è considerato un padre della patria ma che in quel momento era visto come un giacobino ateo a capo del partito di opposizione, i Repubblicano-Democratici. Dire “partito” era dire troppo: secondo gli uomini allora al governo, i federalisti di John Adams, si trattava di una pericolosa fazione sovversiva contro cui era giusto fare leggi emergenziali punitive. Una volta vinte le elezioni da Jefferson, il nervosismo era palpabile: il risultato sarebbe stato accettato da tutti come legittimo? E lui, il nuovo presidente, si sarebbe vendicato dei nemici spodestati? Sarebbero successe cose “francesi”, rivolte di piazza, colpi di stato?
Come sappiamo, non accadde nulla di tutto ciò.
Jefferson disse famose parole di concordia: “Siamo tutti repubblicani, siamo tutti federalisti”. E inaugurò il primo trasferimento pacifico di potere fra due presidenti appartenenti a partiti opposti della storia nazionale. Lo giudicava un fatto così importante che parlò di una “Rivoluzione del 1800”, altrettanto fondante di quella del 1776 e con effetti altrettanto duraturi.
Lo scorso 9 novembre, acquisiti i risultati delle ultime elezioni presidenziali, “a peaceful transfer of power” è stato il mantra degli sconfitti. Lo hanno citato come un pilastro della democrazia americana sia Hillary Clinton nel discorso di concessione, che Barack Obama in una sua dichiarazione. La frase è ovviamente cerimoniale: la pratica a cui si riferisce è ben consolidata (da più di due secoli appunto). Ma la sua evocazione retorica è stata così insistita da essere notata. Forse sia Clinton che Obama intendevano tranquillizzare un’opinione pubblica nazionale e internazionale innervosita da una campagna elettorale lunga e cattiva e dalla vittoria a sorpresa di un candidato inusuale e sorprendente come Donald Trump.
Insomma, il messaggio era: le istituzioni funzionano in maniera ordinata e, come ha detto Obama, “nel prossimo paio di mesi lo mostreremo al mondo”.
Così, appena conclusa la corsa elettorale, ne è subito cominciata un’altra, più breve ma altrettanto affannata. È “la corsa” a cedere il controllo dell’enorme macchina del governo federale alla nuova amministrazione, in vista dell’inauguration del nuovo Presidente il prossimo 20 gennaio.
Che la procedura riguardi presidenti di colore politico diverso, è del tutto normale nell’età contemporanea. Sembra strano ma una transizione regolare, non traumatica, cioè tramite elezioni, fra due Presidenti del Partito Democratico come Obama e Clinton sarebbe stata un vero evento storico. Non se ne ricorda una dai tempi dell’America pre-Guerra civile. Le uniche sono state appunto traumatiche e ben impresse nella memoria: una causata dalla morte di Franklin Roosevelt nell’aprile 1945, a cui successe il Vicepresidente Harry Truman, poi confermato dalle urne tre anni dopo; l’altra dall’assassinio di John Kennedy nel novembre 1963, a cui successe il Vicepresidente Lyndon Johnson, poi eletto dal popolo dodici mesi dopo. Ai Repubblicani, invece, è successo più di recente, con il passaggio del testimone da Ronald Reagan a George Bush padre nel 1988-89 – e meno recentemente negli anni venti del Novecento e prima ancora.
Che la transizione sia così breve, una settantina di giorni dall’Election Day al 20 gennaio, è una relativa novità nella lunga storia del paese. Accade infatti solo dagli anni Trenta del secolo scorso. Prima di allora i tempi erano molto più lunghi, fino a quattro mesi: il mandato del nuovo presidente eletto all’inizio di novembre cominciava il 4 marzo. Poiché questa data era scolpita nel testo costituzionale, per cambiarla ci volle il Ventesimo emendamento, proposto nel marzo del 1932 e ratificato, piuttosto rapidamente, nel gennaio del 1933. Il nuovo emendamento regolò anche l’inizio dei lavori del nuovo Congresso, stabilendo che senatori e rappresentanti entrino in carica il 3 gennaio.
Nel Novecento, quattro mesi con il governo federale nel limbo di un passaggio di poteri sembravano decisamente troppi, il residuo di una polity d’altri tempi che funzionava con altri tempi.
In quattro mesi poteva succedere di tutto. Già nell’Ottocento c’era stato il caso dell’inverno 1860-61, il più drammatico di tutti, quando nel lungo intervallo fra l’elezione di Lincoln e il suo ingresso effettivo alla Casa bianca c’era stato il fatto compiuto della secessione degli stati schiavisti del Sud. E poi la Guerra civile. Ora l’inverno 1932-33, il peggiore della Grande depressione, di nuovo metteva Washington di fronte a un’emergenza incontrollata, tanto più che il Presidente-eletto Roosevelt rifiutava di collaborare con il Presidente uscente, Herbert Hoover. La frenetica politica rooseveltiana dei famosi “cento giorni” – da quella occasione nacque l’espressione proverbiale – era anche una reazione alla stasi dei centoventi giorni precedenti.
I tempi più brevi si sono rivelati provvidenziali all’inizio della grande recessione del 2008, che ha coinciso con la transizione dall’amministrazione di George Bush figlio a quella di Obama. A favorire il rapido passaggio di poteri, in questo caso, ci fu anche una intesa politica e personale fra i due Presidenti, piuttosto sorprendente viste le loro differenze. Bush facilitò il passaggio di misure anti-crisi che consentirono a Obama di cominciare il suo mandato con la giusta velocità. E Obama lo ringraziò in maniera non formale nel suo discorso di insediamento, per la sua “generosità e collaborazione”.
Da allora almeno la collaborazione, che prima poteva esserci o non esserci, è stata resa obbligatoria da alcune leggi (l’ultima è dell’inizio del 2016) che quest’anno sono state sperimentate – con difficoltà e ritardi iniziali, ma poi, sembra, con qualche soddisfazione. Seguendo le nuove procedure, è stato il Presidente in carica a prendere l’iniziativa nel pianificare in anticipo il passaggio dei poteri. Ha creato un ufficio (transition council) che ha coinvolto i candidati presidenziali fin da giugno, quando erano ancora presumptive nominees, ancora privi dell’investitura ufficiale delle convenzioni di partito. I candidati a loro volta, volenti o nolenti, hanno così dovuto cominciare a pensare all’impresa della transizione già nel pieno della campagna elettorale.
L’impresa è in effetti enorme.
Una volta che si metta davvero in moto, dopo l’Election Day, sono in genere il Presidente-eletto e i suoi collaboratori a fare le cose più interessanti, delicate e complicate. In poche settimane devono selezionare le persone che occuperanno le posizioni apicali nei ministeri e alla Casa bianca, ma anche migliaia di posizioni secondarie, molte delle quali richiedono security clearance o conferma da parte del Senato. Tutte dovrebbero essere pronte a funzionare a pieno regime a partire dall’Inauguration Day: quindi devono conoscere gli uffici e essere bene informate dei dossier aperti, in particolare di quelli riservati.
Il Presidente uscente, invece, si fa lentamente da parte. Negli ultimi giorni può accadere che faccia atti di grazia o di commutazione di pene – vivendo per un attimo l’illusione, prima di lasciare per sempre le stanze del potere repubblicano, di essere un monarca di antico regime.