Diseguaglianze e tensioni sociali: un test duro per i candidati presidenziali
Diseguaglianze economiche e relazioni tra comunità etniche sono tra i grandi temi nell’agenda politica e mediatica americana. A un anno da Ferguson, dopo che in questo sobborgo di St. Louis in Missouri sono tornate le proteste e il coprifuoco, possiamo senz’altro affermarlo. Le rilevazioni Gallup sui diritti civili, la condotta della polizia e il ruolo dei neri nella società americana confermano che la questione è tornata ad essere nei pensieri degli americani tutti.
La perdita di potere economico della classe media è forse la preoccupazione principale dei candidati democratici alle primarie 2016 e il ruolo delle minoranze è al centro dei tentativi di ricostruire la coalizione sociale che ha eletto Barack Obama. Non è una sorpresa. Quel che sorprende è come il primo tema sia in qualche modo entrato a far parte anche del discorso repubblicano. Segno di come la grande recessione abbia aperto delle ferite profonde e cambiato i termini del dibattito in maniera piuttosto radicale, probabilmente rendendo il terreno della competizione elettorale più congeniale al partito del presidente – almeno a questo punto del 2015.
In più di un’occasione i candidati alla Casa Bianca del Grand Old Party (GOP) – Jeb Bush, Marco Rubio, Ted Cruz e Rand Paul – hanno parlato del problema della crescente disparità di reddito tra gli americani agiati e quelli poveri. La soluzione degli aspiranti presidenti repubblicani, in genere, non passa per un ruolo redistributivo dello Stato, ma per tasse più basse e meno regole – come ha suggerito con poca fantasia il senatore del Texas Cruz. Più articolata la proposta di quello che doveva essere il presunto favorito Jeb Bush, che insiste molto sull’investimento nell’istruzione – aumentando il numero di quell’ibrido di istituti pubblici e privati che sono le charter school e riducendo i costi di frequentazione dell’università. Ad oggi l’ex governatore della Florida è stato il più schietto nel parlare di disparità di reddito. Altri, vedi il senatore della Florida Rubio, preferiscono evitare di discuterne apertamente, ragionando piuttosto sulla accresciuta mancanza di mobilità sociale ed economica.
Ma è senz’altro una novità il fatto che i Repubblicani abbiano ora chiaro che la crisi ha colpito la classe media bianca di lavoratori, piccoli imprenditori e commercianti che sono parte del loro elettorato dagli anni Ottanta; i candidati hanno capito che, per mantenere quei consensi, devono dare delle risposte.
Alcuni dei discorsi più radicali e ideologici anti-intervento pubblico scompaiono quindi dal vocabolario. Anche Rubio parla allora di garantire a tutti gli studenti americani migliore accesso all’istruzione e di adeguare i benefici fiscali ai bisogni delle famiglie a basso reddito, ad esempio per ridurre il costo degli asili nido e delle scuole materne.
Quando scelgono di parlare di povertà, inoltre, i candidati repubblicani sostengono che le politiche democratiche (leggi le politiche di welfare) sono uno strumento per mantenere i poveri e le minoranze alle dipendenze dello Stato. Interessante in questo caso che l’accento sia posto su questo aspetto piuttosto che non sul concetto per cui “li manteniamo noi con le nostre tasse”. La difesa del sistema pubblico della sanità per gli anziani (Medicare) da parte del governatore dell’Ohio John Kasich, durante il primo dibattito TV, è un timido segnale: il GOP resta il partito del meno Stato, ma i toni da Tea Party sono al momento attenuati.
Le relazioni tra minoranze etniche e la discussione nazionale sulla perenne arretratezza delle condizioni in cui vivono gli afro-americani entra in questa discussione in varie forme, già dalla primissima uscita elettorale di Hillary Clinton: quella che resta la più forte candidata democratica ha scelto di parlare della necessità di riformare un sistema carcerario che colpisce in maniera tanto difforme neri, ispanici e bianchi. Senza voler inseguire la Clinton su un tema che non certo è nell’agenda tradizionale repubblicana, ma i candidati alle primarie del GOP non possono fare a meno di trattare la questione, anche se con modalità molto diverse gli uni dagli altri.
Vediamo qualche esempio. “I saccheggiatori-protestatori di Ferguson hanno uno slogan: Mani in alto/non sparate. E perché non: Su i pantaloni/non saccheggiate?”, ha scritto Rubio sul proprio profilo di Facebook nei giorni delle proteste dell’agosto 2014. Il senatore del Kentucky Paul ha invece espresso un punto di vista decisamente differente su Time negli stessi giorni: “Se da ragazzo fossi sceso in strada sapevo che mi sarebbe potuto capitare di essere fermato dalla polizia, ma non temevo di ricevere un colpo di pistola (…) L’indignazione di Ferguson è comprensibile, anche se non c’è mai una scusa per disordini o saccheggi. (…) ci dovrebbe essere una differenza tra le modalità di intervento della polizia e quelle di un esercito”.
Ecco quindi un tema scivoloso per i Repubblicani, che infatti è stato quasi ignorato nel primo dibattito televisivo tra di essi il 6 agosto. In quell’occasione, le domande sulla materia sono state solamente due (a Scott Walker e Ben Carson) e solo Rand Paul, nel suo appello finale, ha detto: “Sono stato a Chicago, Baltimore e Ferguson… perché sono un Repubblicano diverso dagli altri”.
Ognuno di essi fa il calcolo tra i benefici di assumere una posizione responsabile e “presidenziale” e la necessità di convincere una base di partito che negli anni si è spostata a destra. Il giovane senatore ispanico – Rubio – vuole essere certo di parlare ai conservatori spaventati dalle rivolte nei ghetti, mentre il libertario bianco – Paul – si rivolge a un segmento crescente e sui generis del GOP, criticando l’eccessivo intervento dello Stato: la colpa è del Big government che ha voluto militarizzare la polizia. Paul parla anche della sproporzione nel numero di afroamericani che finiscono in carcere per “errori di gioventù”. Gli stessi che commettono molti giovani bianchi i quali non amano l’autorità e che, se a New York City stanno con Occupy Wall Street, in Oklahoma magari fanno parte di un gruppo che va a giocare alla guerra nei boschi alla domenica.
I toni variano insomma al variare dell’elettorato che si spera di conquistare. O della necessità di convincere finanziatori ed establishment di essere la persona giusta.
Direttamente coinvolto dalla vicenda di Baltimora è Ben Carson, che è afroamericano e ha lavorato una vita al John Hopkins Hospital (con sede appunto a Baltimora). L’ex chirurgo ha incontrato i leader neri di questa città del Maryland, riconosciuto gli eccessi della polizia locale nei confronti della minoranza e aggredito la questione delle diseguaglianze criticando lo sperpero di risorse federali che non riesce comunque a ridurre il tasso di povertà. L’incontro con la comunità si accompagna dunque alla critica dei programmi di welfare incapaci di mutare una realtà che sembra fossilizzata. Parlando di Baltimora, Carson ha anche spiegato che il problema sta nella concentrazione della povertà, non la razza. Forse perché afroamericano, forse perché residente di Baltimora, Carson è dunque il candidato che coglie il tema in maniera più profonda.
Jeb Bush sposta invece l’attenzione sulla famiglia: “I bambini in questo Paese sprecano le loro vite senza che nessuno abbia mai detto loro che possono imparare. Non sono mai stati chiamati a raggiungere dei risultati migliori”, ha detto l’ex governatore della Florida commentando le vicende di Ferguson e Baltimora. La soluzione? “Se chi ci governa vuole aggredire la povertà, deve innanzitutto riconoscere che un vero programma è una famiglia unita fatta da due genitori”. Un mix di “conservatorismo compassionevole” e istruzione, dunque, aggirando il tema della razza e mettendo in secondo piano quello della povertà di chi vive nelle città americane, che, come indicano molte ricerche pubblicate di recente, sono sempre più segregate.
In realtà, va detto che tutti tendono a svicolare dal tema della questione razziale. Anche Martin O’Malley, ex governatore del Maryland e concorrente alle primarie democratiche, è inciampato su Baltimora sostenendo che “tutte le vite contano” (in risposta all’hashtag divenuto slogan “#blacklivesmatter”, cioè “le vite dei neri contano”). Volendo essere ecumenico, O’Malley ha fatto infuriare la base militante di questa comunità; e ha dovuto scusarsi. Persino Bernie Sanders, senz’altro il candidato democratico più progressista in corsa per il 2016, ha avuto difficoltà ad entrare in sintonia con la comunità afroamericana.
Con Carson, l’unica ad aver preso di petto il tema è Clinton. Coerentemente con la scelta di consolidare la coalizione sociale di Obama, l’ex-Segretario di Stato parla da subito ai neri, perché riconosce che alcuni problemi sono destinati a durare e rappresentano una vera sfida per gli Stati Uniti. Sa anche bene che per riportare costoro ai seggi in massa come è accaduto con Obama servirà un lavoro speciale; e lo comincia immediatamente entrando in sintonia con la comunità in un momento di grande tensione.
Diverso l’approccio verso gli ispanici. Qui il dibattito nazionale riguarda la necessità di una riforma del sistema di immigrazione, e – in particolare per i Repubblicani – l’equilibrio che i candidati devono trovare è quantomeno sfuggente. Si tratta di scegliere tra le preoccupazioni dell’americano bianco medio e non troppo giovane – elettore tipo delle primarie repubblicane, ma specie in via di estinzione – e la comunità di origine centro- e sud-americana, che pesa sempre di più nelle elezioni presidenziali. Donald Trump ha addirittura scelto di usare la minoranza in ascesa demografica come bersaglio, lanciandosi in attacchi volgari contro i messicani e promettendo una linea dura contro l’immigrazione. La scelta sembra funzionare per quanto riguarda le primarie, ma renderebbe molto difficile la battaglia elettorale. Nemmeno Cruz sembra voler usare il proprio cognome e origini cubane come chiave per cercare voti. Bush e Rubio contano invece sul proprio legame con quella comunità per convincere l’establishment del GOP di avere le caratteristiche giuste per essere candidati vincenti. Su questo fronte il lavoro migliore lo fa probabilmente l’ex governatore della Florida. Bush infatti ha una storia vera da raccontare – quella del suo viaggio in Messico e del colpo di fulmine per la moglie, una giovane locale – e può raccontarla in spagnolo. Bush è anche sostenitore della riforma dell’immigrazione “che non si fa a colpi di decreti legge” ma dialogando con il Congresso.
Un esercizio, quello del dialogo, tentato da Obama e arenatosi alla Camera. In quella partita ebbe un ruolo cruciale proprio Rubio, che dopo aver lavorato con i Democratici, scelse di non fare infuriare l’ala destra del proprio partito rinunciando a battersi per far passare un testo di legge. Oggi il senatore della Florida sostiene che una riforma complessiva è impossibile da fare passare e che occorre quindi votare leggi diverse “cominciando con la messa in sicurezza dei confini”.