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Numeri e geopolitica delle migrazioni verso l’Europa

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Sono sempre più numerosi coloro che tentano di raggiungere l’Europa con mezzi di fortuna; più di un milione nel corso del 2015. Alcuni fuggono la guerra, altri la paura delle persecuzioni, altri invece una grande povertà o la mancanza di occasioni di lavoro. Le dimensioni del flusso, e la sua rapida crescita, ci indicano che siamo di fronte a un fenomeno dalle caratteristiche inedite per tutte le ultime generazioni.

Basta solo uno tra i tanti dati forniti dall’ONU al riguardo per darcene un’idea più concreta. Negli ultimi quindici anni il numero di persone che cercano asilo all’estero e che sono costrette ad abbandonare con la forza il proprio domicilio è aumentato di oltre il 150%, fino a superare la quota dei cinquanta milioni.


Un esercito di rifugiati

Con la forza appunto: una delle conseguenze più evidenti e paradossali delle tante guerre scoppiate negli ultimi cinque anni è stato proprio quello di “produrre” un abnorme esercito di rifugiati – un esercito di grandezza spesso proporzionale alla violenza e alla durata del conflitto. Ne fa parte ad esempio ormai più di metà della popolazione siriana: il paese è completamente stravolto da cinque anni di guerra civile. E terzo al mondo per numero di sfollati (dopo la Colombia, grazie al conflitto interno tra lo stato e i ribelli delle FARC) è infatti l’Iraq, che ne ha più di 4 milioni: una cifra che sembra altissima, ma che corrisponde solo a un terzo di quelli siriani.

Dal punto di vista degli economisti, due elementi spiegano le migrazioni internazionali: l’accesso e i salari relativi. L'”accesso” significa esistenza di mezzi di trasporto, informazioni (ormai trasmesse anche per via digitale), precedenti positivi: questi creano delle “esperienze” che si tramandano, cosa che spiega come mai le migrazioni abbiano destinazioni e rotte così precise. La differenza di salario tra il luogo di partenza e quello di arrivo sarebbe poi il motivo fondamentale del viaggio. Nel passato come oggi le migrazioni di rifugiati vittime di guerra si allontanano però da questo schema: intanto si tratta di fenomeni molto più improvvisi, e poi dipendono non dai salari relativi ma dalla possibilità di accesso a una condizione di pace e sicurezza.

Questo speciale tipo di accesso, essenziale, viene attivamente costruito sia dai rifugiati stessi, sia dai loro parenti e amici già arrivati o che arriveranno in seguito, sia dalla società che li accoglierà. I due milioni e mezzo di ebrei dell’impero zarista scappati dai pogrom di fine Ottocento e inizio Novecento per rifugiarsi in America non sono andati verso il paese più ricco – allora gli Stati Uniti non lo erano affatto – ma in quello dove le condizioni di accesso erano migliori. Lo stesso accadde alla Francia della prima metà del XX secolo, meta prescelta dai rifugiati provenienti dall’Armenia, dalla Spagna, dall’Italia, dalla Germania, dall’Algeria.

Tra chi fugge da guerre e persecuzioni, e chi attraversa il mare per cercare un lavoro migliore – sappiamo che chi arriva non appartiene alle fasce di popolazione più in miseria, ma anzi ha una certa istruzione e un certo livello di reddito (seppure basso per gli standard occidentali) – resta quindi una differenza. Differenza dal punto di vista del diritto internazionale e dunque del dovere d’accoglienza, per quanto il sentimento di solidarietà possa, per fortuna, farci considerare queste due categorie sullo stesso piano.

I luoghi delle migrazioni

Se già conosciamo grosso modo le rotte e le motivazioni di chi viaggia, meno facile è localizzare tutte queste persone, giorno per giorno. L’ONU ci indica che nove rifugiati su dieci si trovano ora in zone considerate economicamente meno sviluppate: non in Europa, dunque. È infatti molto difficile per una persona in fuga già solo riuscire a uscire dai confini del proprio paese. In Europa, alla fine del 2014 (ultimo conteggio ufficiale), i paesi con il maggior numero di rifugiati o richiedenti asilo erano la Lettonia (1.322 per 10.000 abitanti), l’Estonia (671), la Svezia (233) e la Norvegia (109). L’Italia non ne aveva che 22, ossia una cifra pari a 140.000 persone, la Francia 46 (310.000) e la Germania 56 (455.000). Poco a che vedere con i milioni ospitati in Siria, Iraq, Pakistan, Sudan, Turchia e Libano.

Di fronte a queste cifre, sembra relativamente meno coraggiosa l’offerta della Germania di raddoppiare entro il 2015 il numero di rifugiati da accogliere nel suo territorio, nel quadro dei nuovi impegni europei. Sarà paradossalmente più arduo mantenere la seconda parte dell’impegno assunto da Berlino: la riforma di tutto il sistema giuridico e del funzionamento tecnico dell’asilo europeo.

L’iniziativa tedesca arriva dopo mesi di tentativi e altrettanti insuccessi a livello UE per introdurre un sistema di ripartizione proporzionale dei rifugiati tra i paesi. Gli egoismi, i riserbi, le gelosie, dettati dalle agende politiche nazionali – i vari governi non volevano “problemi”, non volevano fare un assist politico ai partiti xenofobi presenti ovunque, non volevano rinunciare alla gestione delle proprie strutture – sembravano imporsi come al solito.

Il sistema di quote obbligatorie, più un ulteriore set di azioni coordinate e di riforme da intraprendere, veniva rifiutato a voce alta dagli stati dell’Europa orientale, ma sottovoce da molti altri. Impossibile sembrò anche riformare il regolamento di Dublino sull’asilo, che da un lato lascia mano libera ai governi nazionali di disciplinare come credono la materia, e dall’altro contiene delle rigidità che finiscono per creare scompiglio, disorganizzazione e illegalità sia relativamente alle strutture di accoglienza che alla vera e propria vicenda umana di chi migra.

Il labirinto politico-legislativo europeo 

Si tratta di una situazione che risale alla caduta del Muro di Berlino, quando alcuni temevano ondate apocalittiche di profughi provenienti da Est. Come sappiamo non è successo nulla del genere, ma gli europei decisero comunque – nonostante le frontiere esistessero ancora nella loro interezza – di mettere per la prima volta in comune parti di sovranità nell’ambito dell’asilo e dell’immigrazione. Quella grande paura fu uno dei motori del cambiamento successivo, che rende l’Unione Europea del 2015 più attrezzata della Comunità del 1989 di fronte al problema. L’attuale regolamento di Dublino è chiamato III proprio perché è la terza revisione (2013) di una stesura del 1990.

Angela Merkel il 31 agosto ha chiesto un “soprassalto comune di solidarietà”, proprio perché sa bene che non siamo di fronte a un’emergenza passeggera, da risolvere nel giro di una stagione o due: la grande zona geografica che gli americani chiamano Greater Middle East – si estende dall’Afghanistan al Maghreb – principale serbatoio mondiale di rifugiati, non sarà stabilizzata prima di dieci-quindici anni. Inoltre, l’Africa centrale vive una situazione di relativa crescita economica (il PIL di alcuni stati cresce fino al 9% annuo) e di vero e proprio boom demografico: due fattori (compresa appunto la traiettoria del PIL) che aumentano il numero delle persone disposte a intraprendere il pericoloso e costoso viaggio verso Nord per motivi economici. Come se non bastasse, ai rifugiati e ai migranti economici di oggi si aggiungeranno infatti presto altri consistentissimi flussi di persone in fuga dagli effetti dei cambiamenti climatici: i segnali che provengono dai meteorologi di tutto il mondo in questo senso sono inequivocabili.

La perdita di immagine conseguente alla crisi greca è stata di certo importante nella scelta tedesca. Sull’immigrazione, anche grazie all’immobilismo degli altri, la Germania ha davvero assunto quel ruolo di “leader di ultima istanza” che le circostanze del processo decisionale europeo le assegnano, per forza o per amore. Forse anche grazie all’impressione suscitata da alcune immagini apparse sui media – il bambino morto sulla spiaggia, le persone “numerate” dalla polizia, le lunghe marce a piedi – Francia e Regno Unito, inizialmente riluttanti, hanno dovuto allinearsi all’iniziativa tedesca.

In conclusione, l’agenda provvisoria proposta dalla Commissione europea in maggio, e scartata allora da molti stati, ha oggi più possibilità di vedere la luce a titolo definitivo. Ma, come detto, alcune posizioni sono ancora lontane. In Francia, l’idea di accogliere stabilmente i rifugiati non vede solo l’opposizione scontata del Front National, ma anche della destra moderata di Nicolas Sarkozy. Londra, dal canto suo, vorrebbe approfittare della trattativa che nascerà sul tema per proporre una riforma restrittiva di Schengen, tema caldo del futuro referendum inglese per la permanenza nell’Unione: intenzione che Berlino non ha intenzione di assecondare. E soprattutto, gli stati dell’Europa orientale, in particolare Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Polonia i cui governi parlano apertamente di minaccia islamica, di selezione in base alla religione, di muri da erigere, non vogliono rassegnarsi al sistema di quote obbligatorie.

Errore di prospettiva? 

Ma le lezioni di morale lasciano il tempo che trovano, se pensiamo che i paesi che davanti al fenomeno migratorio rappresentano la frontiera dell’UE, cioè l’Italia, la Grecia e l’Ungheria, avrebbero soprattutto bisogno di un aiuto coordinato e di rinforzi tecnico-amministrativi per creare dei centri d’accoglienza – quei centri che idealmente dovrebbero trovarsi sull’altra sponda del Mediterraneo – dove operare la prima selezione tra i candidati allo status di rifugiato e i migranti economici.

Il problema infatti appare insostenibile ed enorme dalla prospettiva dei singoli stati nella gestione dei maggiori punti di ingresso – proviamo a guardarlo delle coste di Lampedusa o di Lesbo, o dalla stazione di Keleti, o dall’imbocco del tunnel della Manica – ma riguarda in realtà una quantità di persone che corrisponde attualmente allo 0,11% di tutta la popolazione del continente, e secondo le stime più generose non supererà nei prossimi anni la quota dello 0,5%. L’Unione è per forza di cose in una posizione che le permetterà di regolarlo meglio di quanto ogni membro possa fare da solo, e deve cogliere l’occasione per farlo.

L’obiettivo che l’UE deve ricercare nel prossimo futuro è quello di riorganizzare la propria malconcia “politica di vicinato”. La politica migratoria comune dovrebbe presupporre l’intesa con una lista di paesi considerati “sicuri”, quelli cioè dai cui cittadini le domande d’asilo saranno automaticamente respinte, e che possono aiutare a contenere e a ospitare i rifugiati sul loro territorio; l’unificazione delle legislazioni sul diritto d’asilo; una formula di ripartizione dei rifugiati tra i membri dell’UE, magari includendo una forma di pagamento economico sostanzioso a carico di quegli stati che proprio non ne vogliono sapere di ospitarli.

Il punto infatti è quello di riequilibrare l’impegno dei diversi paesi, unica maniera di superare la contrarietà di polacchi, cechi, slovacchi e ungheresi. Anche perché presto i rifugiati potrebbero arrivare dall’Ucraina, e l’Europa orientale non potrebbe rifiutarsi di offrire aiuto a chi scappa dai russi. Infine, sembrerebbe utile la costruzione di corridoi di entrata sorvegliati, da un lato per distinguere subito i migranti economici dai richiedenti asilo, e dall’altro per diminuire il potere di scafisti e trasportisti, e con esso il rischio di trattamenti inumani.

Una questione globale 

Ci vuole perciò una strategia di lungo periodo nei confronti del Nord Africa, considerando che su quel versante la nostra frontiera è il mare, e dunque non possiamo costruirci un muro sopra come hanno fatto gli Stati Uniti con il Messico. La stabilizzazione politico-economica dei paesi rivieraschi (Tunisia, Libia, Egitto) deve diventare una priorità sulla quale avere il coraggio di investire risorse, così come la loro democratizzazione. I rifugiati devono poter richiedere asilo in Europa anche nei paesi di transito, così da evitare l’attraversamento clandestino del Mediterraneo; e perché il controllo sia serio, ma rispettoso dei diritti umani, a poco servirà l’accordo con dittature sanguinose e odiate dai loro stessi cittadini.

L’ONU dimostra cifre alla mano che puntare sui respingimenti, sull’inasprimento legislativo, sul ripristino dei confini interni, è sostanzialmente fatica sprecata: per tutte le ragioni elencate, i flussi non si arresteranno. L’UE invece dovrebbe impegnarsi sulla questione almeno quanto fa sulle questioni economiche che la interessano: tra vent’anni, essa sarà giudicata sulla politica migratoria che oggi sarà o non sarà capace di mettere in piedi.

Tuttavia, sia data la dimensione strutturale delle sue cause – dalla disgregazione degli stati alla demografia, al clima – sia perché il Greater Middle East è una regione del mondo in cui molte potenze perseguono i loro interessi in maniera diretta o indiretta, la questione assurge in effetti a problema globale. Non sembra però che questo punto di vista sia condiviso, sugli altri continenti.

A cominciare dagli USA: Barack Obama ha annunciato che i rifugiati siriani accolti in America passeranno dai 1.500 accolti negli ultimi quattro anni a 10.000: una cifra pari alla quantità di migranti che sbarcano sulle coste italiane in solo un mese. Sono diventati poi 100.000, nelle parole di John Kerry – quota per ora del tutto aleatoria. E ciò grazie al crescere della pressione dell’opinione pubblica, almeno quella progressista, visto che per la maggior parte dei Repubblicani l’ipotesi è inaccettabile.

I paesi sauditi del Golfo invece, pur se tra i più interessati ai mutamenti politici e alle lotte di fazione negli stati vicini (che finanziano a piene mani) si rifiutano categoricamente di accogliere non più di una piccolissima parte dei profughi sul proprio territorio – decisione che favorisce la direzione dei flussi verso nord-ovest.

Eppure, almeno da parte occidentale, si tratterebbe di un messaggio dal contenuto certamente positivo per l’opinione pubblica di larga parte del mondo. La Siria è ridotta in molte zone a un mucchio di rovine, devastata ora anche dai combattimenti contro lo Stato Islamico. L’Afghanistan e l’Iraq non sono messi tanto meglio. Molti paesi del mondo sono intervenuti nella regione anche in nome di valori come libertà, giustizia e democrazia; perché non confermare, anche a noi stessi, che quelle parole hanno un senso anzitutto lungo le nostre frontiere?