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Dalla Grecia al disastro dei migranti: il duro risveglio per Germania ed Europa

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Una somma di crisi mal gestite. Chi volesse descrivere così l’Europa di oggi non sarebbe, purtroppo, molto lontano dal vero. Pensiamoci: l'”emergenza” greca, che per cinque anni ha diffuso panico a tutti i livelli e ha causato diverse, reciproche incomprensioni arrivate quasi a spaccare l’Unione, riguarda in realtà una parte piccolissima della ricca economia continentale. Così come le grandi masse di rifugiati in arrivo dal cuore dell’Asia e dell’Africa non costituiscono in realtà nemmeno lo 0,5% dell’intera popolazione d’Europa. Naturalmente, la questione sembra ben più che complicata, enorme, se osservata dai centri di accoglienza di Lampedusa, dai confini spinati dell’Ungheria o dalle coste su cui la polizia greca si oppone a chi sbarca.

Proprio l’Unione Europea dovrebbe dunque offrire quella prospettiva sovranazionale che consentirebbe di occuparsi al meglio di avvenimenti del genere, impedendo che si trasformino in tragici eventi. Le crisi sono infatti una dimostrazione di come l’Europa può, o non può funzionare: è successo prima con la Grecia, e sta succedendo ora con i rifugiati. Le soluzioni sembrano infine arrivare, ma con un ritardo davvero eccessivo, che testimonia di un sistema lento e inefficiente e che diminuisce la fiducia delle persone nel funzionamento della UE – e forse perfino nella sua ragion d’essere.

Più volte si è detto che le cose sarebbero diverse se la Germania assumesse su di sé quella leadership politica che il suo ruolo di potenza economica le consente – ma che Berlino appare voler limitare solo appunto all’ambito dell’economia. Anche in questo caso, Angela Merkel si è comportata da leader passiva, o al più di ultima istanza: è pur vero che negli scorsi anni ha accettato di prendere in carico il maggior numero di domande d’asilo, insieme a Italia e Svezia, mentre l’impegno di Francia, Regno Unito e Spagna restava molto minore. Ma ha fatto poco per riformare il sistema europeo di asilo; un sistema che semplicemente non esiste perché ogni paese ha voluto continuare a gestire in proprio la faccenda senza condizionamenti.

Gli ultimi giorni però ci mostrano un approccio finalmente diverso; come se appunto fosse arrivato il tempo dell’ultima istanza, quello in cui la leadership tedesca deve pur emergere, nonostante la grande riluttanza di Berlino. La Germania, sfidando il dissenso interno al partito di maggioranza e a una parte della sua opinione pubblica, e quello esterno dei paesi orientali suoi alleati (durissimi nei confronti dei rifugiati che attraversano il loro territorio), ha invece guidato un inatteso cambio di mentalità tra i governi europei. Grazie all’iniziativa tedesca, subito accompagnata dal consenso francese – a cui sarebbe incoerente che si unisca anche l’Italia – gli stati dell’UE si preparano a riformare il sistema di asilo e ad accettare quel sistema di quote e di risarcimenti economici proporzionali che hanno rifiutato solo tre mesi fa.

Siamo alla soluzione del problema? Tutt’altro. Ci sono almeno due aspetti che trasformano le vicende dei rifugiati in una questione mondiale, non solo europea. Il primo è la sua portata permanente: scordiamoci che si tratti di qualcosa di passeggero, di cui tra un po’ non si parlerà più. Le cause che originano i flussi sono infatti tutte ancora in piedi, e tra qualche anno come ragione per l’emigrazione dovremo aggiungere anche i cambiamenti climatici.

E poi, basta considerare i paesi di provenienza dei profughi: Siria, Iraq, Afghanistan, Corno d’Africa… È lì che conflitti di ogni genere costringono centinaia di migliaia di persone a scappare dalla fame e dalla paura – oltre che dalla grave povertà relativa rispetto alle agognate mete europee. I paesi europei, accusati spesso di aver creato o aggravato quei conflitti, devono fare la loro parte nel gestirne le terribili conseguenze umane. Ma il problema è il disinteresse degli altri soggetti coinvolti a livello internazionale, cioè gli Stati Uniti e i ricchi Paesi arabi del Golfo, tanto eclatante quanto assolutamente ingiustificato e che in ogni caso rischia di lasciare l’Europa da sola in questa impresa.

Gli Stati Uniti hanno concesso di ospitare sul proprio territorio circa 25.000 profughi, meno di un decimo di quanti ne ospiti in transito in un anno la sola Italia. I paesi del Golfo, pur se tra i più interessati ai cambiamenti politici e alle lotte di fazione negli stati vicini, che finanziano a piene mani, si rifiutano invece categoricamente di accogliere una parte dei profughi sul proprio territorio.

Ci si potrebbe chiedere se chi scappa dalle guerre del Medio Oriente ed è determinato a raggiungere il cuore d’Europa (“vogliamo andare in Germania”, non fanno mistero di preferire gli intervistati), accetterebbe di restare in permanenza in campi più organizzati che con l’aiuto internazionale verrebbero allestiti in Turchia o magari in alcuni Paesi arabi. È questa infatti la soluzione più in voga tra quelle proposte per diminuire i flussi all’origine; debole, come si vede.

La crisi migratoria che attraversiamo non è dunque solo un’occasione per rinnovare il significato ideale dell’Unione Europea – scongiurando la costruzione di muri interni e la riproposizione delle vecchie frontiere mandate in pensione da Schengen. Gli stati d’Europa dovrebbero anche cogliere l’opportunità di rilanciare la loro politica estera, spesso disarmonica da un paese a un altro, per approntare un’azione coerente ed efficace anche prima che le crisi ci esplodano tra le mani.