Il sistema mondiale degli scambi e la sfida del protezionismo: dalle schermaglie all’escalation?
L’esistenza di dazi sulle importazioni è fenomeno antico di parecchi secoli. La stessa industria USA fino alla fine dell’Ottocento si sviluppò all’ombra degli alti dazi imposti sui prodotti britannici e le tariffe doganali rimasero tra le maggiori fonti d’entrata per il governo federale americano fino al 1914.
Se inquadrati in una prospettiva storica dal dopoguerra ad oggi, i conflitti commerciali odierni si configurano come il prodotto del passaggio da un mondo unipolare (o al massimo bi-polare, prima che scomparisse l’URSS) ad uno multipolare: una situazione in cui gli USA – come “incumbent” – resistono alla cessione di potere economico e politico, mentre i “newcomer” (in primis Cina e in misura minore India e Russia) attraversano differenti stadi di una transizione economica, sociale e tecnologica non ancora completata (e piena di contraddizioni interne), ancorchè contraddistinta da un netto miglioramento delle condizioni di vita di varie centinaia di milioni di abitanti. Tale transizione è stata peraltro inizialmente vista di buon occhio dai maggiori paesi avanzati in cerca di mercati di sbocco e di forza lavoro a basso costo. In particolare, la strategia di contribuire alla crescita di un gigante come la Cina, popolato da un miliardo e trecento milioni di abitanti, con una storia di millenni di potenza politico-economica alle spalle, sta mostrando oggi i suoi risvolti contraddittori più rapidamente di quanto ci si aspettasse.
Nel 1971 l’apertura politica della “diplomazia del ping-pong” tra Mao Zedong e Richard Nixon fu dovuta soprattutto a motivi geopolitici – per Nixon il prestigio internazionale nonostante la guerra in Vietnam, e per Mao far uscire la Cina dalla subalternità ormai conflittuale con l’USSR. Ma dopo neanche un paio di decenni, caratterizzati dall’abbandono del sistema di Bretton Woods e dall’apertura cinese al modello economico basato sul riconoscimento del ruolo del mercato da parte di Deng Xiaoping, l’aspetto delle relazioni economiche e quindi degli scambi commerciali tra Cina e USA e resto del mondo divenne assolutamente prioritario.
Nel frattempo, con la crescita di importanza del commercio mondiale, si erano evolute anche le istituzioni internazionali preposte alla regolamentazione dei conflitti commerciali. Dopo la Seconda guerra mondiale iniziò a funzionare il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) ed è all’interno del GATT che fino al 1994 si sono concordate le regole che disciplinano i rapporti commerciali fra Stati Uniti, Unione Europea e gli altri paesi ad economia di mercato aderenti all’accordo. Il GATT fu poi sostituito nel gennaio 1995, dopo quasi dieci anni di negoziazioni, dal WTO (World Trade Organization), con 164 paesi aderenti e una struttura simile a quella di analoghi organismi ONU, con obiettivi mutuati da quelli del GATT, ossia abolizione o riduzione delle barriere al commercio internazionale, e con l’estensione della copertura anche a servizi e proprietà intellettuale. La Cina ha poi aderito al WTO a partire dal dicembre 2001 e la sua adesione ha progressivamente alterato i già precari equilibri commerciali tra i paesi in via di sviluppo e quelli avanzati.
La caratteristica principale degli accordi, in ambito GATT prima e WTO poi, è stata quella di tendere a favorire i paesi più deboli, impostazione avviata nel secondo dopoguerra dagli USA a favore di Germania e Giappone e poi resa ancora più ampia verso i paesi emergenti. La scelta è stata fatta seguendo una filosofia di promozione dello sviluppo che avrebbe comunque portato beneficio ai paesi avanzati con la possibilità di poter usufruire di nuovi mercati. Dopo la crisi del 2008-09, tuttavia, e con il progressivo spostamento degli equilibri globali a favore dei paesi emergenti, Cina in primis ma anche esportatori di commodities, i paesi avanzati hanno adottato un numero crescente di misure protezionistiche. Secondo il Global Trade Alert del CEPR, dall’1 gennaio 2009 agli inizi del 2018 si contano a livello globale oltre 7.500 (grafico 1) interventi tariffari e non tariffari a difesa di mercati domestici, a fronte di interventi di liberalizzazione degli scambi di poco superiori a 3.100.
Dei 7.500 interventi ben oltre metà sono stati adottati da paesi avanzati, con gli USA a farla da padrone con oltre 1.400 interventi (grafico 2) e con la Cina maggiore destinatario di misure protezionistiche da altri paesi (avanzati e non). Il settore che globalmente è stato maggiormente colpito da interventi protezionistici è l’acciaio (con quasi mille interventi), seguito da prodotti in metallo, auto e apparecchi domestici.
Non appare sorprendente quindi che Donald Trump abbia avviato l’escalation proprio con tariffe sull’acciaio, anche se certamente inusuali per la dimensione dell’aliquota imposta sull’import dalla Cina.
Squilibri reali in uno scenario che cambia
Lo squilibrio di trattamento negli accordi commerciali tra la Cina e gli USA (in favore della Cina) è reale. Mentre venti anni fa questo era accettabile sia da un punto di vista morale (dato il livello di sviluppo cinese) sia da uno più sostanziale di convenienza reciproca nel medio-lungo termine, oggi diviene più difficile mantenere le stesse condizioni di fronte ad un paese che rappresenta la seconda potenza economica del pianeta e registra un elevatissimo surplus commerciale.
Anche l’UE, ad esempio, ha rinviato il riconoscimento del Market Economy Status (MES) alla Cina (che renderebbe impossibile identificare le pratiche di dumping da parte delle imprese e del governo cinese), nonostante la Cina sostenga l’esistenza di un obbligo giuridico nei trattati del 2001 di concedere il MES dopo l’11 dicembre 2016. Questa interpretazione non è stata condivisa dalla UE – soprattutto in seguito alle pressioni del governo italiano. Per ora, la più grande nazione esportatrice del mondo (appunto la Cina) e il più grande blocco commerciale (proprio la UE) si sono astenuti da una guerra tariffaria, ma l’Europa e Pechino rimangono distanti su una serie di questioni, dalle dispute mercantili relative all’accesso alle rispettive industrie strategiche ai disaccordi fondamentali sul rispetto dei diritti umani. In queste controversie, uno dei punti di pressione più efficaci della Cina è stata la minaccia di imporre restrizioni all’industria automobilistica tedesca (come ventilato peraltro dallo stesso Trump). Anche Canada, Stati Uniti, India, Giappone e Messico hanno deciso di continuare a considerare la Cina una Non Market Economy e mantengono la discrezionalità giuridica nel determinare quando tale presunzione sarà revocata.
Le attuali frizioni sul commercio sono dovute principalmente a due comportamenti tenuti dalla Cina che difficilmente si possono considerare in linea con pratiche di libero scambio. Il primo è la notevole disinvoltura nell’appropriazione di proprietà intellettuale. Se un’impresa tecnologica straniera vuole operare in Cina deve operare in joint venture e quindi cedere know-how, altrimenti non viene ammessa nel paese. Il secondo fenomeno è che in molti settori la Cina finanzia le perdite delle aziende pubbliche, con un vantaggio competitivo non recuperabile da aziende private non oggetto dello stesso trattamento in patria.
Nel quadro storico degli accordi commerciali globali, la recente adozione di barriere tariffarie da parte degli USA appare per ora solamente un’accelerazione (pur se indubbiamente notevole) delle schermaglie sul commercio internazionale osservate in passato, limitate come sono ai soli acciaio e alluminio esportati negli USA da un gruppo di paesi, peraltro molto ristretto data l’esenzione concessa ai principali esportatori verso gli USA (Canada, Messico, UE, Brasile, Sud Corea).
Le misure protezionistiche adottate recentemente dall’amministrazione Trump si collocano dopo alcuni trimestri di rilancio del commercio mondiale. La brusca riduzione nel 2009 dell’export di merci e servizi a livello globale, con un crollo in termini di quantità superiore al 10%, fu seguita nel biennio successivo da un rimbalzo positivo di oltre il 22%. Da quel momento (fine 2011) a tutto il 2016 il commercio mondiale si è poi mosso sostanzialmente in linea con la crescita del PIL, fenomeno che aveva portato gli analisti a diagnosticare una significativa contrazione strutturale nel moltiplicatore commercio/PIL a livello globale. A partire da inizio 2017, tuttavia, si è registrato un rilancio degli scambi, con tassi di crescita superiori al 5%. Avviare oggi una vera e propria guerra commerciale che si estendesse a più prodotti e a più paesi (NAFTA, UE) significherebbe quindi porre un freno a un brillante motore della crescita economica recente.
Dazi politici o guerra commerciale?
Per ora, siccome sono state implementate solo tariffe su acciaio e alluminio, l’impatto sull’economia mondiale sarà comunque minimo e sarà molto ridotto anche su USA e Cina. Gli USA producono in casa il 70% dell’acciaio di cui hanno bisogno e, date le esenzioni, solo il 31% delle importazioni di acciaio USA saranno oggetto delle annunciate tariffe del 25% (non molto diverso è il discorso per le tariffe del 10% sull’alluminio). Inoltre, sia acciaio che alluminio pesano pochissimo sul PIL americano e cinese, e comunque l’inevitabile riassetto dei flussi tra paesi fornitori di questi prodotti contribuirà a diminuire ulteriormente l’impatto macroeconomico. Anche dal punto di vista del beneficio occupazionale per gli USA l’impatto diretto sarà minimo, ma quello complessivo potrebbe essere addirittura negativo: dal 1990, l’occupazione nel settore dei metalli di base negli Stati Uniti è scesa di quasi il 50%, anche se la produzione è aumentata del 5% in termini di volume. Sulla base delle recenti tendenze nella produttività del settore, Oxford Economics ha stimato che le tariffe creerebbero circa 10.000 nuovi posti di lavoro nel settore dei metalli di base, ma porterebbero alla perdita di almeno 80.000 posti di lavoro nel resto del settore manifatturiero che perderebbe competitività a fronte di più alti costi degli input.
Molti osservatori sostengono che in realtà Trump si stia posizionando per ottenere condizioni migliori a quel tavolo negoziale che rappresenterebbe il suo vero obiettivo, ma resta una domanda più ampia: le schermaglie potrebbero diventare vera e propria guerra commerciale, magari in modo non deliberato, per un effetto contagio? Possibili segnali di allarme potrebbero essere l’applicazione delle tariffe statunitensi a industrie cinesi di importanza-chiave come l’elettronica di consumo (o altre di pari importanza per il futuro della Cina) o anche eventuali sviluppi negativi dei negoziati NAFTA (che Washington vuole per ridiscutere parte degli accordi) e di quelli sulle relazioni commerciali USA-UE.
Nel breve termine l’impatto più significativo si avrebbe tramite due canali. Il primo è l’immediata perdita di fiducia dei mercati finanziari, con conseguenze negative immediate su corsi azionari e prezzi degli asset, a cui seguirebbe quella di consumatori e imprese. Il secondo canale è il rischio che le banche centrali reagiscano bruscamente all’inevitabile aumento dell’inflazione che deriverebbe dall’aumento dei costi dei prodotti importati con una restrizione della liquidità e un rapido aumento dei tassi di interesse. Questo scenario porterebbe con sé sia un veloce “flight-to-quality” da parte degli investitori e una svalutazione degli asset dei paesi emergenti, sia un irrigidimento delle condizioni del credito alle imprese con contrazione di investimenti reali e della crescita economica globale.
Nel lungo termine, una escalation finirebbe con il distruggere l’attuale sistema del commercio mondiale, basato su regole concordate. L’attuale politica commerciale degli Stati Uniti rischia di incoraggiare in futuro azioni più incisive, sia da parte degli Stati Uniti che di altre grandi economie e blocchi commerciali. Le recenti azioni protezionistiche aggiungerebbero ai fattori esistenti che hanno ritardato il commercio mondiale un “protezionismo strisciante” legato ad aree quali l’azione antidumping e la mancanza di progressi nella liberalizzazione del commercio multilaterale dall’inizio degli anni 2000.