La lotta per il potere alla Casa Bianca: il caos come metodo?
Il Trono di Spade, nonostante la sua ambientazione fantastica, è forse il prodotto culturale attuale che descrive in maniera più precisa le dinamiche del potere. Nel terzo episodio della seconda stagione abbiamo un perfetto esempio. Varys, lo scaltro consigliere di corte, pone un indovinello al nano Tyrion Lannister, fratello della regina, su chi tra un gruppo di individui possegga il vero potere. è forse il re, che presiede al diritto? O il prete, che governa le coscienze? Oppure, è l’uomo più ricco del gruppo a detenere il vero potere, quello d’acquisto? O è infine il mercenario, che non ha né corona, né autorità spirituale, né ricchezze, ma porta la spada, e ha quindi facoltà di vita e di morte? La risposta: “Il potere è una cosa curiosa: risiede dove gli uomini pensano che risieda. è un’ombra sul muro. E anche un uomo molto piccolo può proiettare una grande ombra”.
Raramente questo carattere mutevole del potere si è rivelato in modo più chiaro che all’interno della Casa Bianca di Donald Trump. è come se l’attuale Presidente, entrato a Washington da outsider, avesse lasciato da parte tutte le consuetudini stabilite negli anni per che razionalizzavano lo scontro tra le personalità “di corte” e rendevano il Presidente pienamente commander in chief. Al loro posto, via libera agli animal spirits della competizione tra individui alla ricerca di influenza ai più alti livelli del governo.
Il risultato? Una Casa Bianca che fin dai suoi primi giorni è stata caratterizzata da una perenne confusione. Continui licenziamenti e cambi di ruolo hanno accompagnato una sostanziale inconsistenza di policy, che ha portato a fallimenti – come nel caso della mancata abolizione dell’Obamacare – o a coups de théâtre, in politica estera come in politica interna. Tutto ciò, mentre ogni giorno si susseguono soffiate alla stampa e scandali sempre più consistenti.
Il quadro che ne esce è impressionante: a distanza di soli otto mesi dall’insediamento, la Casa Bianca ha già visto il licenziamento o le dimissioni in quasi tutti i ruoli di più alto grado vicini al Presidente. Il Chief of Staff Reince Priebus, sostituito dal Generale John Kelly lo scorso agosto, è stato solo l’ultimo di una lunga serie di teste tagliate: da Michael Flynn, consigliere per la sicurezza nazionale dimessosi già a febbraio per i suoi contatti con le autorità russe, al portavoce Sean Spicer, per arrivare fino alle dimissioni di Stephen Bannon, che per lungo tempo era stato ritenuto la vera eminenza grigia del Trumpismo. Un’escalation che ha cambiato completamente il volto del team Trump, e che non è stata esente da risvolti comici, come il caso del direttore della Comunicazione Anthony Scaramucci, rimasto in sella per soli dieci, intensi giorni.
Una confusione che però è una conseguenza di come è stata gestita la campagna elettorale del tycoon. Da un lato, si tratta dello scotto naturale da pagare per una candidatura di rottura e anti-establishment, che ha generato una abbondanza di sostenitori del Presidente senza importanti esperienze di governo. A questa motivazione immediata, si affianca il fatto che Trump ha basato la sua vittoria non su un unico gruppo di interesse, ma ha raccolto su di sé varie istanze sconnesse, fino ad allora ai margini del mainstream repubblicano.
Ciò ha guidato la composizione della squadra di consiglieri che ha accompagnato Trump fin dentro la Casa Bianca. Infatti, se la molteplicità di opinioni è una costante di ogni amministrazione, con l’attuale Presidente è degenerata in scontro di fazioni – ognuna con i propri obiettivi e visioni del mondo quasi opposti – per il mantenimento dell’influenza nello Studio Ovale. Per schematizzare al massimo, si potrebbe dire che un primo dualismo vede da un lato i nazionalisti, sostenitori dell’”America First” isolazionista e pessimista: tema che Trump ha cavalcato in campagna elettorale, e che aveva il loro principale ispiratore in Bannon. Dall’altro lato, i globalisti, ovvero l’élitenewyorkese che si raccoglie intorno alla famiglia del Presidente e alla sua precedente carriera nel mondo degli affari, come la figlia Ivanka e il genero Jared Kushner.
All’ombra di questa contrapposizione sono germinate altre fazioni più fluide, ma non per questo meno decisive. Come quella del partito Repubblicano, costituita dai (pochi) esponenti del GOP che hanno accettato di sostenere il Presidente, come il Vicepresidente Mike Pence e Reince Priebus, comunque allontanato dallo staff. O quella dei generali, sostenitori del mantenimento dell’ordine tradizionale in politica estera, i quali hanno acquisito sempre maggiore influenza con il Segretario alla Difesa James Mattis, il nuovo Chief of Staff John Kelly e il Consigliere per la sicurezza nazionale H.R. McMaster. Passando poi per la fazione di Wall Street, rappresentata dal consulente finanziario Gary Cohn e dal Ministro del Tesoro Steve Mnuchin, a cui vanno le chiavi della politica economica del paese. Non bisogna infine dimenticare i “trumpiani DOC”, che devono la loro carriera totalmente alla fedeltà al capo e che lo affiancano con ruoli creati ad hoc: come la consulente speciale Kellyanne Conway, l’ex dipendente di lungo corso della Trump Corporation e ora responsabile per i social media Dan Scavino, e Hope Hicks, la 28enne ex modella appena promossa a direttrice della Comunicazione.
Tutte queste fazioni competono ferocemente per emergere agli occhi del presidente. Ciò pare facilitato da come Trump prende decisioni alla Casa Bianca: un modello di leadership molto informale, mutuato dai suoi anni da manager e basato poco su strutture gerarchiche definite e molto su immediatezza, prossimità e competizione. Tanto che, secondo alcune fonti, nel suo staff si sarebbe creata una corsa a chi ha accesso per ultimo al Presidente prima di una decisione, in modo tale che gli rimangano in testa le ultime parole sentite.
L’effetto è quanto visto negli ultimi mesi: un continuo cambiamento di fronti, in cui le varie fazioni si sono alternate al volante dell’amministrazione. Con le conseguenze estreme di vedere consiglieri e collaboratori fino al giorno prima ritenuti indispensabili cacciati senza troppe cerimonie – il caso di Bannon fa scuola. In realtà, proprio l’allontanamento dell’ex eminenza grigia del trumpismo da parte di Kelly a metà agosto sembra aver inaugurato una nuova fase, in cui il potere all’interno dello Studio Ovale appare ormai pertinenza di un’alleanza tra due gruppi meglio definiti: alla famiglia, il vero sancta sanctorum, si affiancano (a volte si contrappongono) i generali come appunto John Kelly, chiamatiper portare finalmente disciplina. Tanto da aver sollevato il sospetto – quasi certamente eccessivo – che il controllo del processo decisionale sia ormai passato nelle mani degli apparati militari.
Eppure, nulla porta a credere che la lotta si sia placata all’interno della Casa Bianca. Dopotutto, le altre fazioni, per quanto indebolite, mantengono delle sacche di potere autonomo, capace di creare un contrappeso al dominio della famiglia e dei generali. Basti pensare al Vicepresidente Pence, o allo speechwriter e ideologo dell’alt right Stephen Miller, braccio destro di Bannon. Lo stesso Bannon, ora ritornato al suo ruolo a capo della rivista online di estrema destra Breitbart, potrebbe essere più influente fuori dalla Casa Bianca che da dentro, grazie a un presidente particolarmente sensibile all’esposizione mediatica.
Infine, si apre un’ultima possibilità: che la confusione attorno allo Studio Ovale non sia dovuta a incapacità o inesperienza, ma derivi invece da una precisa strategia dello stesso Trump. Torna utile ritornare al Trono di Spadee leggere la frase di Ditocorto, l’esperto di macchinazioni della serie: “il caos è una scala”. Per un presidente politicamente debole e controverso, soggetto a scandali e senza alleati di peso nel sistema politico della capitale, mantenere i propri collaboratori in lotta costante per il suo accesso potrebbe essere la soluzione migliore per conservare quel potere (arrampicandosi sulla scala del caos) che sarebbe già sua prerogativa costituzionale: quello di avere l’ultima parola. In altre parole, di gestire la scacchiera.
Solo il tempo dirà se, e a quale prezzo, questa strategia avrà successo. E se alla fine sarà il Presidente che riuscirà a proiettare l’ombra più grande sul muro.