Dal “preacher in chief” al “twitter in chief”: la retorica politica da Obama a Trump
Spesso, nelle democrazie, le elezioni vedono vincere la parte opposta a quella detentrice del potere; raramente questa regola è apparsa più chiara che con il passaggio di consegne tra Barack Obama e Donald Trump. Non solo due rappresentanti di partiti opposti, ma soprattutto due individui che appaiono l’uno il negativo dell’altro. Tanto che l’attuale presidente sembra aver modellato la sua avventura politica proprio in radicale antitesi a quella del suo predecessore.
Questa diversità traspare soprattutto nelle scelte retoriche dei due uomini politici. Se Obama ha basato il suo successo su una capacità oratoria fuori dal comune, che lo riallaccia direttamente alla grande tradizione oratoria americana, Trump ha impostato fin dalla campagna elettorale il suo brand su una totale rottura con il passato. Il suo discorso è involuto e frammentato, e alle frasi argomentative e ai periodi lunghi si sostituisce la ripetizione di punch-line:frasi o concetti brevi che hanno l’obiettivo di restare facilmente impressi nella mente del pubblico.
Anche se si ripetono senza sostanziali modifiche in tutte le apparizioni pubbliche dei due presidenti, i due stili si sono manifestati in tutta la loro potenza ciascuno in occasioni diverse. Per Obama, questa occasione è il discorso ufficiale, occasione per dare mostra delle proprie qualità retoriche. Tra i tanti esempi, il secondo discorso di inaugurazione di Obama del 2013 si presenta come un caso da manuale di discorso di insediamento. Un eloquio appassionato ma lucido e razionale presenta tutti i temi tipici di Obama, dalla speranza all’unità, fino all’ottimismo per un futuro migliore, avvolgendoli in una luce di proposta politica.
L’abbondante ricorso a artifici retorici tradizionali, un’altra tipicità di Obama, non falsifica, bensì innalza il messaggio del discorso, trasformandolo quasi in una predica: dall’uso ripetuto dell’anafora (“This country has more wealth than any nation, but that’s not what makes us rich. We have the most powerful military in history, but that’s not what makes us strong. Our university, our culture are all the envy of the world, but that’s not what keeps the world coming to our shores”), alle metafore, fino al tricolon, il raggruppamento di parole a gruppi di tre. Come nel suo evocare la Dichiarazione di Indipendenza: “it is our generation’s task to make these words, these rights, these values – of life, and liberty, and the pursuit of happiness – real”. Per concludere con un uso intensivo del “We” opposto all’”I”. Con un effetto quasi musicale, da predicatore: da preacher in chief.
Il discorso di insediamento di Trump non ha la stessa icasticità. Certo, l’attuale presidente è riuscito a presentare la sua visione del mondo in modo abbastanza chiaro, veicolando, tramite la celebre metafora dell’American carnage, una rappresentazione cupa degli Stati Uniti. Però le regole del discorso istituzionale, che non può essere corto e spezzettato, hanno in qualche modo imbrigliato la vera forza retorica del tycoon. Questa invece si manifesta prepotentemente nelle occasioni informali, durante le interviste o su Twitter. In tutti questi casi, emerge un modo di parlare frammentato, fatto di slogan, basato su una lingua semplice e immediata, da quarta elementare: se Obama è il preacher in chief, Trump è piuttosto il twitter in chief. Una retorica che però, in realtà, non è meno elaborata di quella di Obama.
L’idioletto di Trump, come è già stato scritto, si costruisce su una serie di elementi retorici riconoscibili e ripetuti: il concludere ogni frase con la parola più connotativa in modo da lasciarla risuonare nella mente dell’ascoltatore (“Look what happened in California, with, you know, 14 people dead. Other people are going to die, they’re badly injured, we have a real problem”); l’utilizzo di parole brevi, per la maggior parte monosillabi; l’attenzione posta sulla prima persona, cioè “io…il comandante in capo”; la ripetizione ossessiva di parole in forma di mantra, come win, problem, Islamic terrorism. Decisiva è poi la paralissi, che permette di fare delle insinuazioni senza prendersi la responsabilità di quanto si dice. Come quando, posto di fronte a un suo retweet di un grafico con dati falsi, si difese dicendo: “Era solo un retweet. Non è una cosa che ho scritto io. Veniva da una radio, da altri posti… Sono fonti molto credibili.”
Analizzare le differenze di stile tra i due presidenti non è questione di lana caprina. In un’arena politica in cui la comunicazione non solo è sempre più importante, ma rimane uno dei pochi strumenti che il potere esecutivo haper influenzare il processo decisionale impantanato nel vietnam parlamentare, la retorica serve a veicolare e a costruire consenso attorno a un progetto politico. Utilizzando la celebre citazione di Marshall McLuhan, per l’inquilino della Casa Bianca il medium è il messaggio. Quindi, differenze retoriche simboleggiano visioni del mondo quasi inconciliabili. Ma soprattutto, diverse visioni di sé e dell’influenza che si vuole avere con la propria azione.
La retorica serve a creare un brand che racchiude al suo interno una promessa. Quindi, la retorica di Obama trasmette un’idea di progresso, centrato su una società in miglioramento continuo, su una presa d’atto delle difficoltà e delle complessità del reale, ma anche della possibilità di superarle tramite l’impegno personale e collettivo. Di conseguenza, il ruolo ideale del Presidente è unire la comunità, favorendone lo sviluppo. Al contrario, Trump presenta un mondo oscuro, in declino inesorabile, dove il Paese non è più quello di una volta, è preda di pericoli interni ed esterni e ha bisogno di riscoprire i propri valori. In questo contesto a tinte fosche, il presidente è un uomo forte che da solo, solo lui, può rendere l’America “di nuovo grande”.
Questi brand sono talmente totalizzanti da diventare univoci: nutrendosi delle caratteristiche degli individui che raccontano, finiscono per esserne indistinguibili e correre il rischio di passare da punti di forza a liabilities. Da un lato Obama, il serio professore di diritto, ha portato avanti uno stile “intellettuale”, della speranza e della complessità, che continua anche dopo la fine del suo mandato, tra eruditi dibattiti sul futuro e pubblicazioni accademiche, ma che si è scontrato molto spesso con il pragmatismo a volte necessario all’azione di governo – fino a venire criticato come aloofness, distacco. Dall’altro Trump, il venditore a cui le regole normali non si applicano, l’uomo che ha fatto della sua immagine di imprenditore di successo un prodotto a uso e consumo della classe media, si è appoggiato a una retorica da vincente al comando. Una retorica che però, se tanto bene si è prestata alla sua vittoria da emergente, ancora non è riuscita a trovare una declinazione presidenziale.
Il problema del conflitto tra le aspettative della retorica alle realtà di un sistema istituzionale, dopotutto, è una questione tipicamente statunitense, a prescindere dall’orientamento politico dell’inquilino della Casa Bianca. Un problema acuito dalla sempre maggiore polarizzazione del sistema politico, dove premia di più presentare un brand immediato, rivolto a un preciso gruppo di elettori, che creare un consenso ampio e trasversale.
E’ per questo che, nonostante le loro irreconciliabili differenze, Obama e Trump sono entrambi profondamente inseriti nella tradizione del loro Paese. Lo è dichiaratamente Obama, la cui retorica si misura e omaggia il meglio del passato, da Walt Whitman a John Kennedy, da Abraham Lincoln a Martin Luther King. Ma è altrettanto americano Trump: la sua proposta di populismo radicale e il suo orgoglio anti-intellettuale seguono un filo rosso che in varie forme, da Andrew Jackson, passando per Joseph McCarthy, arriva a George W. Bush.
Obama e Trump, quindi, rappresentano due stili opposti che non sono altro che due facce della stessa America. Una cultura politica che nella storia si è mossa come un pendolo tra i due estremi dell’idealismo raffinato e del ritorno al popolo; tra il potere delle élite e la diffidenza nei loro confronti; infine, tra il “noi” comunitario e l’”io” individualista. In fin dei conti, che tutto questo sia trasmesso, in vari registri e forme, prima di tutto tramite l’arte retorica, è una caratteristica che contribuisce in maniera fondamentale a creare il mito della politica americana.