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La realtà dietro una sigla: “Stato Islamico” e Stati arabi

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Alcuni traducono: “gruppo Stato Islamico”, per sottolineare che non si tratta di uno Stato – non nel senso tradizionale del termine. L’ISIS sembra sfidare ogni classificazione. Inclusa quella più essenziale, in guerra: la vittoria e la sconfitta.

È opportuno chiedersi cosa sia cambiato, soprattutto dopo la perdita di Kobane, e di circa 3.000 uomini nelle battaglie per quella sola città tra ottobre e gennaio.

Lo Stato Islamico è senza dubbio esperto in marketing e comunicazione, ma la sua forza militare è ancora tutta da dimostrare. In fondo, non ha mai conquistato pienamente neppure Raqqa e Mosul, i suoi due presunti bastioni. Se Mosul, più esattamente, è stata occupata dopo lo sfaldamento dell’esercito iracheno, Raqqa è semplicemente passata dal regime ai ribelli, e poi dai ribelli agli jihadisti per decisione dei notabili locali, senza mai una vera battaglia. Agli analisti non è sfuggito: quando ha incontrato resistenza, l’ISIS non ha mai vinto. Al contrario, è stato costretto al ritiro, come a Kobane. Come ad Aleppo, un anno fa: quando attaccato dai ribelli, in due settimane è sparito.

La sconfitta di Kobane, dunque, non è stata inattesa. Ma né è stata risolutiva. A Kobane, come già ad Aleppo, l’ISIS non ha perso: si è ritirato. Non è sparito: si è ricollocato.

Quella jihadista infatti (e da sempre, fin dai tempi di Al-Qaeda), non è tanto un’organizzazione, perché non è necessario un esercito per colpire come si è colpito a Parigi: è soprattutto un’ideologia. E invece siamo tutti concentrati sulla psicologia, sulle biografie dei singoli tagliagole. Eppure nessuno di noi, oggi, liquiderebbe il nazismo come il prodotto della follia di Hitler. Nessuno di noi ignorerebbe quella relazione tra modernità e Olocausto su cui Zygmunt Bauman ha scritto pagine magistrali. Bollare il nemico come macellaio, come squilibrato, non ha senso. E né è sufficiente definirlo terrorista, perché terrorismo è un termine descrittivo, si riferisce alla tattica usata, al causare terrore per indurre a certe scelte – non è un termine esplicativo.

Vi sono difficoltà oggettive, certo, perché dietro la parola califfato, l’ISIS non ha una proposta politica precisa. E questa vaghezza è la sua forza: perché ogni jihadista può crederci – e perché ognuno di noi, dall’altra parte della barricata, può vedere nell’ISIS esattamente il nemico di cui ha bisogno.

Questa sigla riflette però un’esigenza ormai sempre più condivisa, in Medio Oriente: cambiare le frontiere. E non è una prerogativa degli islamisti. Perché per arabi che parlano tutti la stessa lingua, e hanno tutti il fratello in Yemen e la zia in Marocco, queste frontiere non hanno il minimo senso. Paradossalmente, ottenere un visto è un’impresa: non sono frontiere, sono barriere. Il problema è più profondo, perché a essere in discussione è il modello stesso di governo. Il colonialismo occidentale ha imposto un misto di centralizzazione e divide et impera. Ma nei momenti difficili, non si ricorre allo Stato, qui. Per gli arabi, lo Stato non è il nostro welfare state al servizio del cittadino: è un élite blindata nei palazzi presidenziali a curare i propri interessi – e gli interessi dei propri soci stranieri. Nei momenti difficili si ricorre alla famiglia, agli amici, cioè alla comunità locale. Lo Stato non esiste.

La necessità di un diverso assetto di governo, una diversa relazione tra potere e società: è questa una delle principali ragioni strutturali della diffusione dell’ideologia islamista. Eppure sono temi su cui al momento nessuno riflette, nei think tank occidentali. Perché per noi il principio dell’inviolabilità delle frontiere è un pilastro del diritto e dell’ordine internazionale: puoi toccare tutto, ma non le frontiere, altrimenti scatenerai un catastrofico effetto domino e la terza guerra mondiale. Anche se poi, per fermare l’ISIS, ci siamo affidati proprio ai curdi, un popolo senza Stato che della modifica delle frontiere è tra i più ferventi sostenitori. Ed è sufficiente pensare a Kirkuk – che i curdi vogliono liberare, sì, ma non dall’ISIS bensì da Baghdad – per capire che la nostra strategia non arriverà lontano.

E poi c’è una seconda questione, ancora più centrale della prima, ancora più condivisa: non è più possibile privilegiare la stabilità a scapito della democrazia. Molti hanno archiviato la Primavera Araba come un fallimento. Ma il Medio Oriente è cambiato per sempre, con un elenco di conquiste (o almeno di forti rivendicazioni) lungo e importante: la libertà di espressione, la voglia di partecipazione, la consapevolezza dei propri diritti. E invece noi ci ostiniamo a sostenere (senza dirlo) gli Assad, e (più apertamente) gli Al-Sisi. Ed è quello che impedisce a tanti, a tantissimi, di schierarsi contro l’ISIS. In Siria è evidente: è quello che impedisce ai ribelli, e in particolare a Jabhat al-Nusra, la filiale ufficiale di Al-Qaeda che ha ampio consenso popolare e potrebbe segnare la differenza, di unirsi in un’alternativa. Il piano di pace dell’ONU mira a una serie di cessate il fuoco locali. Ma per capire la falla di questa impostazione è sufficiente guardare all’esperienza di Homs, in cui gli attivisti e i combattenti che hanno accettato l’accordo sono tutti tornati nella morsa del regime – o spariti. Secondo i ribelli, il piano De Mistura non cerca una tregua: cerca la loro resa.

D’altra parte Assad (che ha ancora un indubbio e ampio consenso tra i siriani), più che il nostro alleato di fatto, sembra essere l’alleato di tutti. Nel 2014, solo il 13% degli attacchi dell’ISIS ha avuto come obiettivo il regime; del resto, solo il 6% delle 982 operazioni di antiterrorismo condotte dal regime ha avuto come obiettivo l’ISIS.

In realtà, la speranza di Barack Obama (e dell’Occidente) è che Assad sia spodestato non dai suoi nemici, ma dai suoi amici. L’attuale prezzo del petrolio, sotto i $50 a barile, strangola l’Iran, che ha bisogno di un barile a $140 per il pareggio di bilancio, e quindi la Siria, in cui già prima della guerra il pane costituiva il 40% dell’apporto calorico della popolazione (e che oggi è essenzialmente mantenuta proprio da Teheran). E questa doppia politica nei confronti di Assad, allo stesso tempo sostenuto (o tollerato) e contrastato, si ha con tutti gli altri attori in gioco. Con la differenza però, che oggi i possibili finanziatori, i possibili sostenitori della varie parti in lotta, si sono moltiplicati: il monopolio occidentale è finito. Il risultato di certi equilibrismi non è più il vecchio divide et impera, è la giungla.

Secondo le stime più recenti, in Siria i gruppi armati sono oltre 2.000. Mentre in Iraq le armi, in città come Kirkuk, si vendono al mercato accanto alle mele.

Kobane è iniziata come una battaglia risolutiva, “sarebbe la fine del Medio Oriente”, si diceva, per essere poi presto declassata a battaglia strategica, “è il confine con la Turchia”, e infine a battaglia simbolica, “non possiamo lasciarla all’ISIS” – quando si è capito che Kobane o meno, la guerra sarebbe continuata come prima. Esattamente quello che è capitato con Qusayr. Poi con Aleppo. Battaglia senza più aggettivi, senza senso e senza scopo: Aleppo in cui un tempo nessuno voleva perdere, e oggi invece nessuno vuole vincere, per non avere la responsabilità di ricostruire, di governare – oggi che è tutto completamente in macerie.

E la prossima è Mosul.