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Il Medio Oriente a pezzi: guerre, dittatori e dissenso

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Secondo gli ultimi calcoli dell’ONU, il mondo arabo è oggi teatro del 45% degli attentati terroristici del mondo. Il 57% dei rifugiati vive qui, insieme al 47% degli sfollati. Qui si registra il 68% delle vittime di guerra. Dei paesi della Primavera Araba, l’unico che appare per ora stabile è la Tunisia, che ha una nuova costituzione particolarmente avanzata; ma proprio da questo Paese arriva la metà dei jihadisti che combattono nella vicina Libia. In Tunisia la disoccupazione è così alta, e così cronica, che il 21 ottobre a Kasserine, nel sud, si è avuto un tentato suicidio di massa.

Molti in Europa contestano persino che la Primavera Araba sia mai esistita. Le manifestazioni del 2011 sarebbero state eterodirette, dicono: nient’altro che una manovra straniera per rovesciare governi. Ma in questi anni in cui tutti sembrano avere solo perso, con centinaia di migliaia di morti tra Siria, Iraq, Libia, Yemen, e macerie ovunque, una conquista invece è certa: la libertà di espressione. Quale che sia la ferocia della reazione, oggi nessuno, nel mondo arabo, è più disposto a tacere. A subire. Quelle che prima erano richieste, richieste individuali al signore di turno, sono ora rivendicazioni. Rivendicazioni collettive. I profughi bloccati fuori dalle frontiere europee non mendicano il favore di entrare: protestano, in nome del diritto all’asilo. Nei campi, si sono organizzati con assemblee e portavoce. I re e gli autocrati sono ancora al potere: ma intanto i sudditi si sono trasformati in cittadini.

Piazza Tahrir

 

Per molti analisti, le guerre in corso sono in realtà una guerra sola: uno scontro tra l’Iran e l’Arabia Saudita. Tra i sunniti e gli sciiti. Ma il dato di fondo, nel mondo arabo, è un altro: il 60% della popolazione ha meno di 25 anni. E non conta niente. Sono ragazzi esclusi da tutto. Senza nessuna prospettiva. E senza nessuna intenzione di rassegnarsi a un mondo in cui 8 miliardari possiedono metà della ricchezza del pianeta.

Il paese più in fermento è proprio quello che sembra sotto il giogo più saldo. Nell’Egitto di al-Sisi, nel 2016 sono sparite nel nulla 1840 persone. Cinque Giulio Regeni al giorno. Al Cairo ormai si viene uccisi per niente: per 3 dollari e 83 centesimi, come il tassista a cui un poliziotto ha sparato dopo una discussione sulla tariffa della corsa. O anche per meno. Anche per 40 centesimi, come il venditore di strada a cui un altro poliziotto ha sparato dopo una discussione su un bicchiere di tè.

Mubarak, se non altro, garantiva un minimo di benessere in cambio della libertà: dal 2011, invece, i prezzi dei generi alimentari sono aumentati del 38,6% l’anno. L’Egitto ha 90 milioni di abitanti: 71 vivono di cibo sussidiato. Ma non è questione di povertà: è questione, più esattamente, di disuguaglianza. Rispetto al 2011, ii 6 miliardari egiziani inseriti da Forbes nella lista degli uomini più ricchi del mondo sono adesso più ricchi del 60%.

Per ora, ogni tentativo di rivolta è stato disinnescato con retate di arresti preventivi. Ma i tentativi sono sempre più frequenti. Al-Sisi non durerà a lungo. Nel 2011, certi che la democrazia sarebbe stata sostituita dalla sharia, alcuni (nella regione e oltre la regione) hanno scelto di sostenere non i ragazzi di piazza Tahrir, ma gli al-Sisi e gli Assad. Convinti che fossero l’unica alternativa possibile a islamisti e jihadisti. Che si è finito così per rafforzare. Perché non abbiamo mai voluto domandarci se le ragioni economiche, sociali, politiche alla base del loro radicamento non fossero forse fondate – se la sharia, cioè, non fosse la risposta sbagliata a domande giuste. Domande vere.

La guerra contro l’ISIS è la nostra ennesima guerra al terrorismo, invece che alla povertà e all’emarginazione: i jihadisti, per noi, non sono che degli squilibrati. Ma in realtà governano, o meglio, controllano il territorio, con regole brutali, e però chiare. Mentre gli Assad sono altrettanto brutali: e in più, imprevedibili. Sono gli Assad la vera forza dei jihadisti: perché trasformano i jihadisti nel male minore. In Siria, l’esercito di Assad è responsabile del 94 percento delle vittime civili.

La fine dello Stato Islamico è vicina, è vero. Mosul è quasi caduta, e dopo Mosul, cadrà Raqqa. Ma in fondo, al-Baghdadi “nasce” dalla sconfitta di Bin Laden; così come l’ISIS sarà semplicemente sostituito da una nuova organizzazione – o anche meno: da singoli jihadisti. L’11 Settembre è costato a Bin Laden 500mila dollari. Oggi, per un attentato, è sufficiente un kalashnikov. O anche meno: è sufficiente un’auto. Un tir.

Gli islamisti avrebbero potuto frenare i jihadisti: conciliare sharia e democrazia. E invece, anche qui, abbiamo ottenuto l’opposto di quello che avremmo voluto. Oggi gli islamisti sono non solo popolari come prima: ma sono molto più radicali. Mentre tutta la nostra attenzione è per Siria e Iraq, infatti, molto sta cambiando a Istanbul. Intorno a Recep Erdogan. Molti degli islamisti costretti all’esilio, inclusi i Fratelli Musulmani egiziani, si sono rifugiati in Turchia: da ospiti, sono diventati rapidamente amici, da amici consiglieri. E adesso, alleati. Se per noi Erdogan è il presidente che sta degenerando in sultano, per gli islamisti è l’uomo che sta resistendo all’attacco dell’Occidente contro l’Islam. Il tentato colpo di stato, ti dicono, è la prova che è inutile credere nella democrazia, cercare il compromesso: perché tanto vieni rovesciato. Al contrario. Bisogna essere più determinati. In Egitto, dopo il colpo di stato contro Morsi, gli islamisti pensavano che l’errore fosse avere voluto troppa sharia. Adesso, pensano che sia stato non avere voluto abbastanza sharia.

Ma in realtà, il più profondo cambiamento oggi in corso nel mondo arabo è forse un altro: ed è il cambiamento demografico. La fuga di massa dell’estate del 2015 ha svuotato la Siria della classe media, come già, in passato, si erano svuotati l’Iraq e l’Afghanistan. Interi paesi hanno ormai perso quella società civile che avrebbe potuto invece ricostruirli su basi diverse: né con gli Assad né con gli islamisti. E a questo, si sono sommati gli effetti delle guerre. Intenzionale o meno, si sta avendo un po’ ovunque una progressiva separazione e omogeneizzazione etnica e religiosa. I sunniti, gli sciiti, i curdi, i cristiani, le mille minoranze del mondo arabo sono ora concentrate in aree sempre più distinte. E non è detto che funzioni.

Il Libano per esempio è stato il primo a sperimentare un sistema di quote: dai seggi in parlamento ai finanziamenti pubblici, tutto è ripartito e distribuito tra i vari gruppi confessionali – nonostante l’ultimo censimento sia stato tenuto nel 1932. Con il risultato che esiste il Libano, ma non esistono i libanesi. Con un sistema del genere, ognuno finisce per guardare gli altri non come i propri vicini, ma come i propri rivali. Si condivide uno stesso spazio, in Libano: non uno stesso paese.

Il Medio Oriente è sempre stato imprevedibile. Ma ora, anche se la mappa è la mappa di sempre, ed è ancora composta dalla Siria, dall’Iraq, dall’Afghanistan, in realtà nessuno sa più chi siano davvero i siriani, gli iracheni, gli afghani. E soprattutto, nessuno sa più a cosa corrispondano quei paesi. Diciamo Turchia, ma in realtà parliamo di Erdogan. Così come diciamo Russia, ma in realtà parliamo di Putin. Il vecchio interesse nazionale, caposaldo di ogni analisi, sembra essere sostituito dall’interesse di chi è al potere.

E però, è esattamente quello che abbiamo voluto: pensando che questo garantisse più stabilità della democrazia. O che questa fosse la democrazia, dal momento che ora il più imprevedibile dei paesi, in fondo, sono gli Stati Uniti di Donald Trump. Volevamo esportare la democrazia in Medio Oriente, volevamo che gli altri ci somigliassero. Cambiassero. Forse siamo cambiati noi.