international analysis and commentary

Una svolta radicale e le sue origini profonde

1,809

Domenica 28 ottobre 2018 sarà ricordata come il giorno in cui il più radicale dei leader dell’estrema destra emersi dalla crisi economica internazionale venne eletto a presidente della terza più popolosa democrazia al mondo. Jair Bolsonaro, l’ex-capitano dell’esercito, apologeta del regime militare (1964-1985) che “avrebbe dovuto ucciderne di più”, ha staccato di 11 milioni di voti  (58 milioni di voti /55% contro 47 milioni/45%) Fernando Haddad, candidato del Partito dei Lavoratori (PT), vincendo in sedici su ventisette stati della federazione brasiliana. Bolsonaro ha sfiorato il plebiscito nel ricco Sudest – 43% degli elettori in una regione che vale il 54% del pil – nel Sud, nel Centro-ovest e in tre stati del Nord. Haddad, da parte sua, ha vinto con non meno del 60% nei nove stati del Nordest – 27% degli elettori e 24% del PIL – mentre si è imposto di misura in due al Nord. Più di 31 milioni di elettori (21%) si sono astenuti, il dato più alto di sempre; una non partecipazione che va sommata al record di nulle e bianche, più di 10 milioni di schede.

La corsa all’estrema destra

La sconfitta di Haddad, protagonista comunque di una rimonta che gli ha portato 16 milioni di voti in più rispetto al primo turno (contro una crescita di 8,5 del suo avversario), appare più chiara in prospettiva temporale se confrontata coi dati del 2014, quando Dilma Rousseff portò il PT alla vittoria al secondo turno con 54,5 milioni di voti, contro i 51 milioni per Aécio Neves del Partito della Socialdemocrazia Brasiliana (PSDB), la destra neoliberale.

Tuttavia, se il PT ha perso più di 7 milioni di voti in quattro anni, il dato più eclatante è lo spostamento di quasi tutti gli elettori dei partiti tradizionali di destra e centro-destra verso l’estrema destra. Geraldo Alckmin (PSDB), già governatore dello stato di San Paolo e presidenziale contro Lula nel 2006, si è piazzato quarto al primo turno con appena 5 milioni di voti, ossia 49 milioni in meno rispetto al risultato del PSDB nel 2014 Henrique Meirelles, del Partito del Movimento Democratico brasiliano (PMDB, oggi MDB) già a capo della Banca Centrale durante il governo Lula, ha racimolato 1,3 milioni di voti.

Questo è il vero terremoto politico, più che la sconfitta del PT – che riesce peraltro a eleggere il maggior gruppo alla Camera dei Deputati. Lo è perché dal 1995 a ieri la dialettica principale delle presidenziali era stata la competizione tra il PT e il PSDB, col MDB in coalizione, più o meno rissosa, con l’uno o l’altro; i tentativi di rompere questo schema avevano sempre avuto il fiato corto, e solo pochi anni fa il Brasile di Lula era un paese ‘emergente’ capace di combinare crescita economica, inclusione sociale e stabilità istituzionale.

La scalata al potere di una figura grottesca come quella di Bolsonaro, candidato che in altre elezioni non sarebbe mai arrivato al secondo turno, apparentemente incoerente con la stabilità del vecchio quadro, testimonia in realtà il progredire e l’intensificarsi dello spostamento di larghe parti dell’establishment e dell’elettorato brasiliano verso posizioni reazionarie. Lo scenario di fondo è la sconfitta del modello politico imperniato sul PT per tre mandati e mezzo (Lula 2003-2010 e Dilma Rousseff 2011- Agosto 2016).

Durante otto anni questo modello si fonda sull’equilibrio tra politica ortodossa, monetaria e politiche espansive della domanda: credito e investimenti pubblici, formalizzazione del mercato del lavoro, trasferimenti di reddito e adeguazione costante del salario minimo. A sostenerlo, un patto con larghi settori dei rappresentanti parlamentari dei ceti proprietari e del mercato, specialmente il PMDB, attraverso i meccanismi del presidenzialismo di coalizione e il mantenimento di privilegi e rendite mediante altissimi tassi d’interesse e un sistema fiscale regressivo, tra i pochissimi al mondo a non tassare profitti e dividendi.

La fine della formula di Lula

Il “patto conservatore” di Lula, come lo ha definito André Singer, politologo e ex-portavoce dell’ex-Presidente, assicura crescita, allargamento del mercato interno e inclusione sociale, sostenuto tanto dalla stessa domanda aggregata interna come dal boom di esportazione delle commodities agricole e minerali. Tuttavia durante il primo mandato Rousseff il quadro macroeconomico e la politica economica cambiano. Si registra il raffreddamento della domanda estera e in generale dagli effetti della crisi del 2008 che cominciano a farsi sentire in Brasile; la politica economica si caratterizza per l’intensificazione delle misure espansive e  un abbandono parziale della gestione macroeconomica ortodossa, sostenuto da settori importanti degli industriali, entrando in scontro frontale con gli investitori finanziari e le banche private.

Da qui in poi entra in gioco un peggioramento dei conti pubblici, dell’indebitamento delle famiglie e delle attivitá economiche. A cavallo tra primo e secondo mandato il governo torna sui suoi passi ma a quel punto la crisi istituzionale provocata dalla manovra di impeachment contro la Rousseff colpisce e aggrava la crisi economica, sfociando in una delle peggiori recessioni della storia brasiliana e nella fine del patto conservatore, simbolizzata dal voltafaccia del PMDB.

Crescita negativa, disoccupazione ai massimi e erosione del potere d’acquisto segnano il 2015-2016 in concomitanza con la deflagrazione dell’inchiesta ‘Lava Jato’ che getta luce su un sistema di finanziamento alla politica che riguarda tutti i partiti, che è preesistente ai governi del PT, ma che travolge principalmente la coalizione di governo. L’agenda del governo è paralizzata dal parlamento, mentre un crescendo di avvisi di garanzia e custodie cautelari incendia le piazze sospinte dai grandi media nazionali, già tradizionalmente schierati contro il PT. Il movimento conservatore guidato dal PMDB e dal PSDB, i cui principali leader sono comunque anche loro raggiunti da avvisi di garanzia, è deciso a mettere fine per vie non elettorali alla stagione dei governi PT, imporre un programma economico super-ortodosso che sarà iniziato col governo post-impeachment del vicepresidente Michel Temer, e difendersi dai processi.

L’impeachment della Rousseff, che si oppone ai tentativi di contenere le autoritá giudiziarie, e la stretta giudiziaria contro l’ex-Presidente Lula, per impedirgli di candidarsi nel 2018, sono gli obiettivi essenziali del movimento. Di questa fase dirà una voce autorevole come quella di Luigi Ferrajoli che la “totale mancanza di imparzialità dei magistrati e delle innumerevoli lesioni dei principi del corretto processo di cui Lula è stato vittima, unitamente all’impeachment assolutamente infondato sul piano costituzionale che ha destituito la presidente Rousseff non sono spiegabili se non con la finalità politica di porre fine al processo riformatore che è stato realizzato in Brasile negli anni delle loro presidenze”.

La scalata di Bolsonaro

Jair Bolsonaro in quei frangenti non era che un deputato federale di lunga data, stimato dai club militari e dalle frange più estremiste delle piazze, conosciuto per le sue dichiarazioni truculente, ormai di dominio mondiale, e ostentatamente al fianco dei leader istituzionali dell’impeachment. Nonostante fosse stato coinvolto in alcuni episodi di finanziamento illecito e abuso di privilegi parlamentari, la sua aggressività verbale contro le istituzioni lo ha portato a guadagnarsi la simpatia e crescere al ritmo dei movimenti contro la corruzione guidati da leader sino a allora sconosciuti di nuovi gruppi organizzati, come il Movimento Brasil Livre e i Revoltados On Line. La destra neoliberale, se aveva la direzione istituzionale dell’impeachment, non aveva quella delle manifestazioni, per le quali si si affidava alla mobilitazione di piazza e online di Bolsonaro e dei suoi seguaci. Questi movimenti, cresciuti e radicati velocemente soprattutto negli stati del Sud, del Sudest e del Centro-ovest, vanno osservati nel contesto di radicalizzazione autoritaria di parti importanti dei ceti medi urbani, un altro tassello dell’ondata conservatrice.

Molti hanno osservato che la classe media sia stata il segmento sociale più critico verso il patto conservatore poiché ha assicurato il grosso del gettito fiscale senza ricevere in cambio un dividendo adeguato in termini di servizi pubblici e di sicurezza per le strade. Questo è stato uno dei dei leitmotif della campagna di Bolsonaro, che ha difeso la liberalizzazione del porto d’armi, l’intervento dell’esercito nelle favelas e meno restrizioni alle forze di polizia tra le misure prioritarie del suo governo. Ma a spiegare il successo del nuovo presidente va anche citata l’influenza delle maggiori chiese pentecostali, che hanno apertamente sostenuto Bolsonaro presentatosi come il difensore dei valori della famiglia e dell’anticomunismo, che in Brasile è essenzialmente “l’antipetismo”.

In altre parole, l’estrema destra, cui i partiti conservatori tradizionali si affidano per sfiancare il consenso verso il PT pensando di dirigere l’orchestra fino alle elezioni del 2018, diviene invece la componente egemonica del movimento conservatore. Il suo leader diviene così il punto focale di tutte le sue correnti, quelle religiose, quelle politiche, quelle militari e quelle economiche, che lo porteranno a trionfare.

Fino a che punto possa spingersi Jair Bolsonaro quando si installerá al palazzo del Planalto se lo chiedono in molti. Che domenica l’esercito abbia esultato per le strade acclamato dalla folla, che si registrino numerosi casi di una caccia all’avversario invocata dal leader pochi giorni prima delle elezioni,che il suo vicepresidente sia un generale che più volte ha vagheggiato la disponibilitá delle forze armate a un intervento militare, non sono certo fattori da trascurare. Tuttavia non è immaginabile la trasformazione subitanea di una democrazia come quella brasiliana, per quanto fragile, in un regime autoritario.

Il presidenzialismo di coalizione che impedisce maggioranze monopartitiche in parlamento e il patto federativo tra Unione, Stati e Municipi sono ostacoli oggettivi a derive autoritarie emananti dall’esecutivo perché sono istituzioni che disperdono il potere e esigono la formazione di un consenso largo su capitolo importanti di spesa e di indirizzo. Bolsonaro dovrá in primo luogo formare una base di appoggio parlamentare chiedendo i voti dei partiti di centrodestra che non lo hanno esplicitamente sostenuto e contano con la metá dei seggi alla Camera e i tre quarti al Senato. Dovrá trovare presidenti delle due camere con cui poter accordare le prioritá dell’agenda parlamentare, e dovrá fare i conti con nove governatori del Nordest allineati con Haddad. Inoltre dovrá trovare l’equilibrio tra le correnti nazionaliste favorevoli all’intervento pubblico in economia e quelle neoliberali, con l’incombenza della legge di bilancio 2019 da approvare entro dicembre.

Bolsonaro potrà adeguarsi alle regole scritte e non scritte e ricercare il consenso, oppure potrà cominciare a demolire le istituzioni dello stato di diritto e della democrazia da dentro, svuotandole secondo i processi descritti da Steven Levitsky. Le caratteristiche culturali ed etiche e perfino il profilo psicologico del nuovo presidente potranno indurlo a tentare la via autoritaria. Forse, proprio perché frustrato dalle esigenze di compromesso del presidenzialismo di coalizione, o dal malcontento sociale che crescerà se prevarrà l’ala neoliberale, potrà decidere per una classica strategia di mobilitazione permanente, chiamando il suo popolo contro gli avversari, le istituzioni e i movimenti sociali e dei lavoratori che scenderanno in piazza. Molto, insomma, dipenderà dalle contingenze dei prossimi mesi e dei prossimi anni: le valutazioni e gli istinti di Bolsonaro, la tenuta del suo fronte, le condizioni generali dell’economia, la determinazione dell’opposizione.