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Le parole di Trump sulla Cina: segnali contrastanti e realtà strategiche

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Non sappiamo se Donald Trump abbia seguito una strategia precisa per inviare un segnale alla Cina, nel parlare il 2 dicembre con la presidentessa di Taiwan, Tsai Ing-Wen, o se abbia agito in modo imprudente senza rendersi conto di quanto sia importante una semplice telefonata (la prima tra presidenti dal 1979). In ogni caso, la mossa ha colpito nel segno.

Il presidente-eletto degli Stati Uniti (in attesa della inauguration del 20 gennaio) ha toccato infatti uno dei pochi tasti in grado di far scattare l’allarme rosso a Pechino. Il gioco è pericoloso: l’ultima volta che qualcuno (Bill Clinton nel 1995) ha fatto uno sgarbo simile alla Cina è quasi scoppiata la guerra nello Stretto di Taiwan. Ma se l’intento di Trump era far capire al Dragone che gli Stati Uniti non sono più pronti a fare concessioni, a meno di congrue contropartite, c’è sicuramente riuscito.

Taiwan, cioè l’isola di Formosa, ex colonia giapponese conquistata dalle forze nazionaliste della Cina alla fine della Seconda guerra mondiale, è politicamente – e potremmo dire psicologicamente – fondamentale per la Repubblica popolare cinese fin dal 1949, quando il Guomintang di Chiang Kai-shek, dopo aver perso la guerra civile, vi si rifugiò instaurando la “Repubblica di Cina”. Da allora, Pechino ha sempre minacciato di riprendersi con l’uso della forza quella che considera nient’altro che una provincia ribelle. E se non ci fossero stati gli Stati Uniti a difendere Taipei, ci sarebbe già riuscito.

Al di là della telefonata incriminata, che potrebbe essere stata anche solo un grossolano errore dovuto all’inesperienza, è l’intervista di Trump a Fox News trasmessa l’11 dicembre ad aver scatenato le ire e «l’estrema preoccupazione» ufficiale di Pechino. Il presidente-eletto infatti ha dichiarato che gli Stati Uniti «non devono per forza essere legati alla politica dell’unica Cina».

L’”unica Cina” (One China policy) è il principio che sta alle base di tutte le relazioni tra le due superpotenze. Dal 1949 al 1971 gli USA hanno tenuto relazioni diplomatiche con Taipei e non con Pechino. Ed è Taiwan (fino al 1971) ad aver occupato il seggio alle Nazioni Unite come rappresentante ufficiale della Cina. Con la visita di Richard Nixon a Mao Zedong del 1972, il disgelo con il paese comunista prese una svolta decisiva, Pechino scalzò Taipei all’Onu e l’America firmò il comunicato di Shanghai, il primo dei tre documenti che mettono in chiaro il principio. In esso si stabilisce che “tutti i cinesi sulle due parti dello Stretto di Taiwan ritengono che ci sia un’unica Cina e che Taiwan è parte della Cina”. Non specificare se il governo legittimo di quest’unica Cina sia Taipei o Pechino faceva parte di quella “ambiguità strategica” che Trump sembra ora volere scardinare.

Un secondo comunicato fu firmato nel 1978, quando gli Stati Uniti con Jimmy Carter  stabilirono relazioni diplomatiche con Pechino, chiudendo di conseguenza l’ambasciata a Taiwan. Pechino usa ancora questo schema con ogni paese del mondo: chi vuole avere relazioni ufficiali con la Repubblica popolare, deve romperle con la Repubblica di Cina. Washington, tuttavia, non abbandonò allora Taiwan. Per continuare a garantirgli protezione, il Congresso approvò il Taiwan Relations Act, che consente agli Stati Uniti di vendere armi all’isola per difendersi da Pechino.

Ogni vendita di armi, però, puntualmente ha trascinato i due paesi sull’orlo di una crisi diplomatica e questo condusse Ronald Reagan, nel 1982, a firmare con la Cina un terzo comunicato, nel quale gli USA si impegnano a “ridurre gradualmente la vendita di armi a Taiwan”, mentre Pechino deve “compiere ogni sforzo per trovare una soluzione pacifica alla questione taiwanese”. Allo stesso tempo, Reagan inviò più volte il capo dell’Istituto americano di Taiwan, James Lilley, l’ambasciatore de facto nell’Isola, a parlare con l’allora presidente taiwanese Chiang Ching-kuo, per offrirgli  rassicurazioni: promettendo cioè che il Taiwan Relations Act non sarebbe stato rivisto, che non sarebbe stata stabilita una data per terminare la vendita di armi e che gli USA non avrebbero mai riconosciuto formalmente la sovranità della Cina su Taiwan.

Quello di Taiwan è un nodo così sensibile e importante per la Cina che quando Bill Clinton nel 1995 permise a Lee Teng-hui, candidato alle prime elezioni presidenziali dirette della storia di Taiwan, di entrare negli USA, Pechino minacciò guerra lanciando missili nello Stretto a pochi chilometri da Taipei. La crisi terminò l’anno successivo quando il governo comunista fece marcia indietro rendendosi conto che la flotta americana, appena schierata a difesa di Taiwan, era troppo potente per essere sconfitta in uno scontro aperto.

Oggi molte cose sono cambiate rispetto a trent’anni fa. Secondo un recente sondaggio, solo il 3% degli abitanti di Taiwan si definisce unicamente come “cinese” e solo l’1,5% vorrebbe “l’unificazione il prima possibile”. Sull’isola, infatti, sono sempre meno coloro che sostengono il principio dell’Unica Cina: lentamente, si sta costruendo un’identità distintiva taiwanese. Se le tensioni tra Cina e Taiwan erano fortemente diminuite con la presidenza di Ma Ying-jeou, l’elezione di Tsai Ing-wen nel gennaio 2016 ha riportato un clima di forte diffidenza tra i due lati dello Stretto, con la presidentessa che si è rifiutata di riconoscere pubblicamente il principio dell’Unica Cina.

Pechino inoltre è tornata a costituire una minaccia internazionale agli occhi degli Stati Uniti per il suo atteggiamento aggressivo nel Mar Cinese meridionale, oltre che per il sostegno economico fornito alla Corea del Nord. Forse come avvertimento per Trump, la Cina a metà dicembre ha sequestrato in acque internazionali al largo delle Filippine (acque che Pechino considera sue) un drone sottomarino americano. I due paesi hanno rapidamente raggiunto un accordo sulla restituzione ma l’incidente non può considerarsi casuale. Come è stato dimostrato da recenti immagini satellitari, continua anche la militarizzare degli isolotti artificiali che la Cina ha costruito illegalmente nel mare conteso: militarizzazione che Washington vorrebbe congelare.

A questo mutato contesto Trump sembra rispondere accantonando la “ambiguità strategica” dei suoi predecessori per tentare di raggiungere un accordo più “esplicito” con Pechino, che garantisca maggiori vantaggi nel campo del commercio e del contrasto alla minaccia nucleare nordcoreana. Se per farlo vuole giocare la carta Taiwan, però, il futuro presidente degli Usa dovrebbe essere più chiaro: Trump ha bocciato il Tpp, l’accordo commerciale  trans-pacifico (già siglato ma non ancora ratificato dagli USA) dal quale Taiwan poteva ricavare molti vantaggi, riuscendo a diminuire la sua dipendenza economica dalla Cina. Inoltre, data la sua dichiarata allergia per i trattati di libero scambio, non sembra intenzionato per ora ad accordarne almeno uno bilaterale a Taiwan. Nonostante tramite i suoi advisor abbia garantito a Taipei ulteriori vendite di armi, ha anche chiesto a tutti gli alleati di spendere di più per la difesa: un problema per Taiwan, che da anni taglia il budget destinato agli armamenti, contando sulla protezione americana.

Il comandante delle forze americane nel Pacifico, l’ammiraglio Harry Harris, ha garantito che la politica a stelle e strisce nell’area non cambierà. I messaggi di Trump sono stati molto contrastanti –  ha volontariamente irritato la Cina, tirando la corda –  ma si tratta per ora di dichiarazioni precedenti all’insediamento e non seguite da alcuna elaborazione concettuale. È presto per temere un’escalation militare lungo lo Stretto (i giornali di partito in Cina invocano già «l’invasione») ed è tutta da vedere quali fatti seguiranno a questo mix confuso di parole.