Cuba tra eredità della storia e cambiamento
La morte di Fidel Castro, avvenuta venerdì 25 novembre – e annunciata almeno un centinaio di volte dai media di Miami e poi da quelli occidentali nell’ultimo decennio – non ha certo colto il regime cubano e Raúl Castro di sorpresa. Il fratello ed erede al potere era pronto da tempo e aveva preparato meticolosamente il Paese e lo Stato.
Ciò era chiaro già dal 2 dicembre del 2006, quando, durante le celebrazioni dei 50 anni dallo storico sbarco del Granma (lo yacht di 19 metri con cui i barbudos iniziarono la loro avventura rivoluzionaria vittoriosa), l’elemento politicamente più rilevante non fu l’assenza dal palco di un già decadente Fidel, bensì il discorso programmatico di Raúl. Fu la prima conferma che il passaggio dei poteri sull’isola caraibica – iniziato quattro mesi prima con l’annuncio della grave malattia del líder máximo – era da considerarsi definitivo.
A dieci anni di distanza, per accorgersene vale la pena tornare ad analizzare quel discorso. Tre gli elementi per azzardare qualsiasi analisi sul futuro, economico e geopolitico, di Cuba. Primo: nel suo lungo discorso di quel 2 dicembre 2006, il più giovane dei fratelli Castro evocò il líder máximo appena tre volte di fronte alle oltre 300mila persone accorse, quasi non fosse lecito né opportuno parlare dell’oramai quasi de cuius.
Secondo: di quello che per Fidel era un vero e proprio tabù – ovvero le relazioni con gli Stati Uniti – Raúl non ebbe esitazioni a parlare. “Approfitto di questa occasione per esprimere la nostra disponibilità a risolvere attorno ad un tavolo di negoziati la questione tra gli Usa e Cuba, il tutto sulla base di principi di eguaglianza, reciprocità, di non ingerenza e di mutuo rispetto”. Impossibile non pensare a quanto sarebbe accaduto di lì a poco, con l’apertura di Barack Obama e l’appeasement siglato tra Washington e L’Avana sul finire del 2014 grazie alla mediazione diplomatica, decisiva, della Santa Sede.
Terzo elemento: dal discorso fu chiaro a tutti che l’esercito avrebbe rivestito un ruolo fondamentale nella nuova tappa dell’isola caraibica, tappa che diplomatici e giornali da allora continuano a chiamare “successione”, mentre il regime definisce, ancor oggi e con orgoglio, “continuità rivoluzionaria”. Anche su questo punto, al pari di quello sulle relazioni con gli Stati Uniti, Raúl Castro ha mantenuto le sue intenzioni – seppure forse non nella maniera a cui molti pensavano. Basta guardare a molti dei migliori hotel e delle strutture turistiche dell’isola che, grazie all’apertura ai turisti statunitensi, sono gestite oggi proprio dal gotha della struttura militare castrista.
Dopo le nove giornate previsto di lutto nazionale, Raúl, come da programma, rimarrà al potere sino al 2018, anno in cui il regime dovrà trovargli un successore. Non è escluso che questi possa appartenere alla stessa famiglia Castro, che detiene il potere sull’isola dal 1959.
Soprattutto Alejandro ma anche Mariela, entrambi figli di Raúl, al pari di Miguel Diaz-Canel, attuale vicepresidente, sono tre over 50 che a detta degli analisti di New York Times ed altri prestigiosi media internazionali potrebbero guidare la “prossima fase rivoluzionaria”. Ma al di là di queste speculazioni, è importante qui sottolineare il senso ed il lascito della dittatura sui generis cubana al resto dell’America latina. Un’eredità non destinata a tramontare, visto il carattere oltre che monopartitico anche, appunto, dinastico del regime.
L’importanza geopolitica di Cuba è dovuta in primis alla poca distanza che la separa dagli Stati Uniti: appena 90 miglia di mare, neanche 150 chilometri. Per quattro secoli l’isola fu una colonia della Spagna ma quando la lotta per l’indipendenza iniziata da José Martí, il Garibaldi cubano, sembrava ormai vittoriosa, una nave statunitense esplose nel porto dell’Avana. Era il 1898 e Washington usò l’incidente del Maine – così si chiamava quell’imbarcazione – per dichiarare guerra ad una Spagna ormai quasi già sconfitta dagli indipendentisti. I Marines vinsero facile, e Cuba invece che indipendente diventò un protettorato degli USA.
Quella guerra lampo diede inizio a due tendenze. La prima fu l’espansionismo statunitense verso l’America latina, destinata a trasformarsi nel backyard, il cosiddetto “giardino di casa”, di Washington nel secolo a venire. La seconda fu, di riflesso, un antiamericanismo radicale presto estesosi a tutto il Sud e Centro America.
La Cortina di ferro tra Occidente e blocco sovietico non fece che acuire queste due tendenze e, anche qui, Cuba ebbe un ruolo decisivo. Il primo gennaio del 1959 Fidel e Raúl Castro manu militari costrinsero alla fuga dall’Avana Fulgencio Batista, il dittatore gradito alla Casa Bianca ed ai grandi gruppi economico-mafiosi che gestivano casinò, prostituzione ed economia locale.
Era l’inizio della Guerra Fredda in America Latina, e l’escalation fu immediata. A Cuba le multinazionali americane vennero nazionalizzate, ma tre anni dopo con la crisi dei missili, già si rischiava la Terza guerra mondiale. I “13 giorni che fecero tremare il mondo”, nell’ottobre del 1962, si chiusero per fortuna senza colpo ferire anche grazie all’intervento decisivo di Giovanni XXIII, autore di un messaggio memorabile “a tutti gli uomini di buona volontà” in favore “della pace e della fratellanza tra i popoli”.
E se L’Avana negli ultimi 50 anni ha ospitato migliaia di guerriglieri latinoamericani per “allenarli a diffondere a livello globale la rivoluzione socialista”, oggi non deve stupire se sia il presidente ecuadoriano Correa che quello venezuelano Maduro, passando per il boliviano Morales e l’uruguayano Mujica, possano tutti considerarsi “figli di Fidel”, chi più chi meno. Certo, a differenza di Cuba, gli Stati governati da questi personaggi sono tutte democrazie; ma l’affinità con l’isola caraibica di molte correnti ideologico-politiche di successo nel Cono Sur è fuori discussione.
Sospesa nel 1962 dall’Organizzazione degli Stati Americani – un po’ una ONU del continente americano, nata sotto controllo USA – dopo quasi 60 anni di embargo statunitense Cuba è stata di recente riammessa grazie all’apertura di Barack Obama. L’obiettivo era attenuare quell’antiamericanismo iniziato con la guerra ispanoamericana del 1898 e poi rafforzatosi negli anni Sessanta e Settanta, due decenni in cui per contenere l’avanzata del socialismo nelle Americhe Washington sostenne apertamente l’instaurazione di dittature. Ancora non è chiaro se Donald Trump continuerà su questa linea, che d’altra parte privilegia gli interessi economici degli Stati vicini a Cuba, a cominciare dalla Florida.
Se è vero che quello dei Castro rimane un regime fortemente autoritario, chi scrive non ha conosciuto una popolazione tanto istruita come quella cubana. Ed è sicuramente nelle conquiste sociali il lascito più imporante di Fidel a tutti i paesi dell’America Latina. A differenza ad esempio del Brasile dove ciò spesso è la norma, se all’Avana un bambino viene “pizzicato” a marinare la scuola, lui rischia il riformatorio e i suoi genitori il carcere. Inoltre, dopo il crollo dell’Urss, è vero che la povertà è aumentata ma, a differenza di molti paesi della regione, “nella Cuba di oggi nessuno muore di fame” spiega padre Antonio Tarzia, sacerdote paolino direttore della rivista Jesus nonché parte integrante della diplomazia vaticana attiva sull’isola, né si registra un tasso di omicidi paragonabile a quello che sconvolge gran parte dei paesi dell’America Latina”.
Insomma, l’esperimento cubano non è tutto da buttare: molti ne sono consapevoli sull’isola, non solo gli ex guerriglieri oramai ottuagenari o i membri del PCC, il partito comunista cubano. “Con l’apertura sogno di farmi un bell’hamburger al MacDonald’s vicino al museo della Revolución” mi racconta Juan, giovane taxista di 22 anni mentre ascolta un’assordante musica hip-hop. “Vedremo che succederà ora ma se gli Usa ci tolgono l’embargo questo paese è destinato a volare” gli fa eco Mario, altro passeggero della classica auto d’epoca che Juan fa sfrecciare sul Malecón, il lungomare dell’Avana.
Il regime era pronto a questo accadimento ineluttabile, la morte del suo fondatore. Per ora, nulla o quasi cambia nei “programmi della revolución” scritti già da tempo da Raúl e compagni. Ma la storia dell’isola sembra ora tutta da scrivere.