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L’Egitto 5 anni dopo Tahrir: un paese sospeso

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A cinque anni dalle proteste di piazza Tahrir, che segnarono il capolinea politico dell’era Mubarak e uno dei momenti di più grande impatto delle primavere arabe, non è per nulla chiaro se l’Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi riuscirà a completare la sua travagliata transizione democratica, o almeno a raggiungere la stabilità politica. La road map tracciata dalle autorità dopo la destituzione del presidente legittimo Mohammed Morsi, il 2 luglio 2013, è sfociata formalmente nella fine del ciclo rivoluzionario con le elezioni parlamentari dell’ottobre-dicembre 2015. Ma la situazione resta critica, visto che gli elementi di instabilità, se non nelle dichiarazioni ufficiali, permangono nella realtà.

Nonostante due “rivoluzioni” (2011 e 2013), la successione di quattro capi di stato (Tantawi, Morsi, Mansour, al-Sisi) e l’insediamento di sette governi (Shafiq, Sharaf, Ganzouri, Qandil, Beblawi, Mahlab, Ismail), i problemi del paese sono rimasti inalterati, se non sono addirittura più gravi. Dopo la destituzione di Hosni Mubarak, infatti, il paese è entrato in una sorta di paralisi dalla quale non sembra poter uscire. Decapitato il “mubarakismo”, l’Egitto si è dibattuto attraverso due transizioni istituzionali (più o meno apertamente guidate dai militari), ha sperimentato un governo democraticamente eletto (durato soltanto 12 mesi), e si trova ora guidato da un regime ibrido, con al vertice appunto al-Sisi, ex generale pluridecorato a lungo distaccato presso l’ambasciata egiziana in Arabia Saudita.

Analogamente al mubarakismo, le peculiarità principali del “sisismo” sono il metodo autoritario, il controllo capillare e pervasivo di tutti i centri decisionali, il consenso consolidato attraverso la repressione sistematica del dissenso. Nonostante l’apparente saldezza del deep state, il regime esprime insicurezze e incertezze che alimentano gli interrogativi sulla capacità di al-Sisi di esercitare realmente e in modo efficace il potere arbitrario che si è attribuito.

Come ha recentemente scritto H. A. Hellyer su Atlantic Council, l’Egitto odierno assomiglia a un “non-regime”, un sistema di potere nel quale esiste una sorta di autocrazia, non sempre coesa e ben definita, che opera in termini di interessi e di espressioni di potere a volte convergenti, altre volte in totale contrasto tra loro.

Metafora ne sono le forze di sicurezza (polizia, esercito e intelligence) in competizione e allo stesso tempo alleate per salvaguardare la stabilità del regime. Queste strutture sono state in grado di perpetuare un sistema di repressione delle opposizioni politiche e dei movimenti della società civile, favorendo un ritorno ad uno stato di polizia simile alle precedenti esperienze. Il nuovo impulso autoritario emerge da diversi indicatori: la messa al bando della Fratellanza musulmana, (il movimento, in parte transnazionale e a lungo clandestino, che ha rappresentato praticamente l’unica alternativa ai militari; la soppressione degli attori non statali (sindacati, movimenti liberali e giovanili); la scarsa attenzione nei confronti delle minoranze beduine e cristiane – queste ultime formalmente più tutelate che in passato ma de facto più discriminate dato l’alto numero di aggressioni e rapimenti nei loro confronti.  Eccezion fatta per la breve ma controversa esperienza di governo proprio dei Fratelli musulmani, lo Stato non ha vissuto processi di strutturazione democratica e/o di rinnovamento politico di poteri e di istituzioni. Si è invece rafforzato il ruolo di centri di potere multiformi ma indipendenti dal controllo della cittadinanza, a partire dai quali diversi attori convergono oggi a puntellare il sisismo.

Emblematica – e preoccupante – è anche la crescente spaccatura esistente tra la business community egiziana e i vertici politici. Fin dai primi passi della seconda rivoluzione del 2013 i grandi tycoon locali avevano sposato l’idea della stabilità del sistema anche al prezzo di leggi speciali applicate con brutalità, perché pronti a godere i benefici delle proclamate riforme epocali e degli ambiziosi progetti infrastrutturali. Oggi invece gli imprenditori sono atterriti dal rischio default con cui convive l’attuale Stato egiziano. Nonostante una sostanziale ripresa del PIL dal 2011 in poi infatti, tutti gli altri indicatori macro-economici indicano una paralisi del sistema-paese: la produzione complessiva è calata, così come i ricavi dalle esportazioni, l’industria del turismo, l’attrattività per gli investimenti esteri e l’apertura ai grandi marchi internazionali.

Neanche l’inaugurazione del raddoppio del Canale di Suez, seppur sfruttata mediaticamente, ha avuto per ora effetti positivi sull’economia locale. L’opera, finanziata quasi interamente con capitali egiziani (8 miliardi di dollari), nelle intenzioni avrebbe dovuto consegnare nuove risorse e opportunità al paese: sarebbe stata la success story economica del sisismo. Dalla sua entrata in funzione nell’agosto 2015 al dicembre dello stesso anno, gli introiti delle royalties sul passaggio sono calati del 3% rispetto allo stesso periodo del 2014, anche per effetto del basso prezzo globale del petrolio.

La perdurante debolezza economica è stata esasperata da politiche rivelatesi inconcludenti, dalle riforme mancate nella macchina economica, amministrativa e giudiziaria promesse nel dopo-Morsi, nonché dal clima di incertezza a livello internazionale dovuto al basso prezzo del petrolio e al rallentamento globale della crescita del Pil delle principali economie del pianeta. Se gli aiuti economici giunti dalle monarchie arabe del Golfo – in particolar modo dall’Arabia Saudita – hanno congelato artificialmente il rischio di un default di sistema, l’inerzia del governo favorisce la tensione tra gli imprenditori e il regime.

Non meno rilevanti, infine, sono le incertezze del governo sui dossier terrorismo e sicurezza interna: spina nel fianco, questa, della legittimità di tutti i governi succedutisi fin dal 2011. Proprio i rivolgimenti istituzionali del 2013 hanno provocato (assieme al contagio internazionale di vari “franchise” estremisti) una spirale di violenza che ha alimentato, in maniera graduale ma costante, una recrudescenza terroristica che si pensava superata dopo le stagioni della fine degli anni Novanta e primi Duemila. Attualmente la violenza terroristica minaccia il paese nella sua interezza, anche se i maggiori focolai sono concentrati nella penisola del Sinai e nella capitale.

Secondo le autorità egiziane, il Wilayat Sinai (WS) – gruppo salafita-jihadista affiliato allo Stato islamico e precedentemente noto con la sigla Ansar Bayt al-Maqdis – è la principale minaccia alla sicurezza nazionale, nonché la formazione responsabile della maggior parte degli attacchi lanciati in questi anni. Nonostante le quattro campagne anti-terrorismo e le misure draconiane promosse dai governi tra il 2011 e il 2015, i risultati ottenuti dalle autorità egiziane sono del tutto inadeguati. Infatti i rilevanti e spettacolari attacchi jihadisti, su tutti quello al procuratore generale Hisham Barakat (ucciso, in un attacco mirato al suo convoglio per le strade del Cairo, il 29 giugno 2015) e al jet russo esploso sul Sinai il 31 ottobre 2015 (224 morti) non sono diminuiti né di numero né di intensità.

Per al-Sisi e il nuovo corso egiziano, dunque, le sfide rimangono numerose e ardue soprattutto se lo scontro politico sarà ancor più polarizzato, data la complessità  degli interessi interni in gioco e le minacce regionali. Non basteranno tuttavia dei rimpasti di governo o una linea politica più liberale in senso puramente “cosmetico” per evitare che problemi cronici diventino ingovernabili. Sarà necessaria una seria riconsiderazione delle priorità dello Stato perché l’Egitto possa uscire dal limbo nel quale è precipitato nel 2011.