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La genesi del risultato nelle fratture etniche dell’America

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Poco dopo il voto che ha incoronato Donald Trump, e nel pieno delle proteste contro la sua elezione, Jack R. Smith, sovrintendente della Montgomery County Public School di Rockville, nella periferia di Washington DC, ha inviato a tutti genitori una lettera sul risultato elettorale. Nella contea di Montgomery Clinton ha vinto con il 76%; Smith ha definito il risultato “difficile”, causa di un’ondata di emozioni senza precedenti, ma anche occasione per ribadire i valori alla base della comunità: rispetto, democrazia, ma tolleranza zero per l’hate speech. Per “elaborare” l’inaspettata vittoria di Trump – traumatica per molti americani a un livello difficilmente comprensibile in Europa – in quella scuola sono stati messi a disposizione degli studenti persino dei counselor, come si fa all’indomani di un lutto o un attentato terroristico.

La paura che anche dopo il voto, così come in campagna elettorale, il Paese resti lacerato, è forte. La lettera di Smith ne è la prova, provenendo poi da una comunità suburbana, uno dei luoghi dove il livello dello scontro può salire facilmente. La contea di Montgomery, che conta oltre 400 scuole tra elementari, medie, superiori ed istituti speciali, ha un’alta percentuale di non-bianchi: latinos, afro-americani e asiatici, insieme superano il 50%. E le problematiche di queste minority-majority, (minoranze che raccolte insieme costituiscono la maggioranza), come in molte altre parti degli USA, generano esclusione sociale.

Anche nella metro-area della capitale, su quasi sei milioni e centomila abitanti, oltre la metà appartengono a gruppi etnici minoritari. Nel collegio DC, dove la candidata democratica ha raggiunto il 93% dei consensi, il 75% dei bianchi l’ha votata. Sarebbe stato un successo, se questo risultato si fosse ripetuto anche altrove. Se, insomma, Trump non fosse riuscito a farsi votare da ben il 58% dell’elettorato bianco nel resto del Paese, decretando la debacle di Hillary. L’elettorato bianco, infatti, costituisce il 65% del totale.

In queste elezioni l’affluenza si è fermata al 58,5%, come nel 2012 – perdendo quattro punti rispetto al 2008 e due sul 2004. La demografia delle minoranze non ha aiutato i democratici come si credeva all’inizio, anzi. Hillary Clinton, rispetto all’ultima elezione di Obama, ha perso meno voti tra l’elettorato bianco di quanti ne abbia persi tra i non-bianchi, secondo Survey Monkey: -2% tra i bianchi mentre -5% tra gli afro-americani; -6% tra gli ispanici e -8% tra gli asiatici. Ma il dato non deve sorprendere troppo: da molti anni, per esempio, la comunità di colore, la più propensa al voto democratico, partecipa solo stancamente alle varie elezioni.

Solo per l’elezione di Lyndon B. Johnson nel 1964 – all’indomani del Civil Rights Act, la legge che aboliva la segregazione – e quella di Obama nel 2008, la partecipazione degli afro-americani ha superato il 60%. Durante il primo mandato di Bill Clinton, il black turnout scese al 50%, anche come reazione alle tensioni razziali dell’epoca: brutto segno premonitore per Hillary, a volerlo leggere alla luce delle ripetute e recenti violenze della polizia contro gli afro-americani.

Come sostenuto dal fondatore di FiveThirtyEight, l’ex mago delle previsioni Nate Silver, in un’analisi-ammissione di colpa post-voto: non esiste più, o forse non è mai esistito un “blue wall” – quel muro di elettori democratici da considerare sicuri a ogni chiamata alle urne.

Nel complesso, il problema per Clinton non è stato solo non aver mobilitato i propri elettori di riferimento, ma averli dimenticati. O addirittura regalati all’avversario negli stati decisivi del Nord: Pennsylvania, Wisconsin, persino in Michigan, lo stato dei blue-collar workers, dove Trump ha vinto con un margine di soli 10.704 voti: 2.279.543 contro 2.268.839. Hillary Clinton ha perso anche in molte delle contee industriali, dove hanno sede ad esempio i grandi stabilimenti Ford, e dove buona parte dei lavoratori del settore automobilistico avevano votato Obama nel 2008 e nel 2012. Tra disperazione per i posti di lavoro persi o a rischio, avevano sperato nelle promesse del presidente, ora uscente: nuova occupazione, la tanto agognata assicurazione sanitaria (Obamacare), sentirsi parte di un progetto di politica economica che valorizzasse la working class.

Molti di questi elettori, mantenute o no le promesse, dopo otto anni di Obama hanno scelto Trump. A Warren, terza città del Michigan per popolazione, vicino Sterling Heights, la sede dove Ford sforna auto elettriche ed ibride – e Trump infatti è stato molto presente –, il fattore immigrazione ha sparigliato le carte. Tra chi non votava da anni o aveva sostenuto Bernie Sanders alle primarie dem, molti si sono schierati con Trump per paura che la Clinton poi “aprisse i rubinetti di sussidi e benefit” agli immigrati musulmani provenienti dal sudest asiatico, la più grande minoranza della contea di Warren dopo gli afro-americani. E non importa se the Donald ha minacciato di smontare l’Obamacare: per molti dei suoi è solo un bluff. Hanno invece creduto che nessun cambiamento positivo per le loro vite sarebbe arrivato da Hillary.

Come ha sostenuto il contestato Steve Bannon, neo-consigliere strategico del presidente-eletto, “la forza di Bill Clinton stava nello sfruttare a fini elettorali le persone senza istruzione. È con loro che si vince”. E Hillary, a differenza del marito, non l’ha fatto.

Il basso livello di educazione, la sete di politically incorrect, il malcontento, i posti di lavoro persi nel manifatturiero e la paura delle minoranze: queste sono le caratteristiche dell’elettorato di Trump, per lo più bianco. Ma Clinton ha perso anche laddove si diceva che sarebbe andata forte: oltre il 5% in meno di Obama tra i millennial, secondo i dati del Pew Research Center: non è riuscita intercettare il voto giovanile. Trump è stato votato dagli under 35 più o meno quanto Mitt Romney quattro anni prima (rispettivamente 36 e 37%). Il dato di Hillary conferma, insomma, la sua distanza dalla generazione a più alto tasso di crescita negli Stati Uniti, soprattutto tra gli ispanici.

A livello nazionale, il sostegno dei latinos per Hillary è stato un mezzo flop; in Clinton poteva godere di un milione e 300mila elettori potenziali in più, considerando la tendenza di questo gruppo a votare Democratico e la loro crescita demografica rispetto a quattro anni prima. E gli exit poll sembravano confermare questa impressione: il voto ispanico totalizzato per Clinton era dato al 65%. Gary Segura e Matt Barreto, fondatori di Latino Decisions e che hanno lavorato per la campagna della democratica, erano ancora più ottimisti: Clinton avrebbe preso almeno l’80% del voto latino. Meglio addirittura di Obama.

Il guaio però è che non è andata così: in Nevada, dove il New York Times pronosticava che la minoranza latina (18%) avrebbe portato alla candidata una cascata di voti, Clinton è stata votata solo dal 60% di loro – a fronte dell’81% del voto nero (9%); il 62% di quello asiatico (6%) e il 38% di quello bianco (62%). Il 29% nel voto latino per Trump vale invece due punti in più di Romney  2012. Come poteva un portoricano, un cubano o un messicano votare per Trump, che ha promesso di rendergli la vita più difficile? Poteva. E in Florida lo ha fatto: il 35% di loro ha votato Trump (contro il 39% di Romney 2012). Una percentuale nient’affatto bulgara, ma che in Florida ha determinato, assieme al grosso del voto bianco (62%), la vittoria per 119.770 di voti sulla Clinton. E a contribuire alla debacle sono stati i cubani espatriati che non hanno visto di buon occhio il disgelo di Obama con L’Avana: il 54% di loro ha sostenuto Trump.

Al di là degli abbagli dei sondaggisti, in queste elezioni l’elettorato americano si è espresso in modo diverso dalle aspettative, si è polarizzato, e ha mostrato attenzione per alcuni temi sottovalutati. Delle tredici issue su cui il Pew, a due settimane dal voto, ha condotto una vasta indagine sugli americani, i due elettorati avevano idee simili solo sulla dipendenza dalle droghe e le condizioni di strade e infrastrutture nel paese. Per tutto il resto – terrorismo, occupazione e investimenti, accessibilità all’istruzione superiore, razzismo, disuguaglianze – trumpiani e clintoniani erano in totale antitesi: è stato lo stesso concetto di democrazia e rispetto, ad essere stato messo in discussione. Gli insulti di Trump nei confronti delle minoranze e delle donne, il fatto che i suoi supporter non fossero decisamente a favore della libertà da parte della stampa di criticare i leader politici, come raccolto ancora una volta dal Pew a pochi giorni dal voto.

Gli unici punti comuni nell’ampio sondaggio sulle tredici più importanti questioni nazionali, sono diventati il pessimismo e lo scoraggiamento persino sui progressi fatti negli ultimi otto anni, e sulla ripresa economica. Un’economia che confermerà il tasso di crescita del 3,9% dell’ultimo trimestre, anche nelle previsioni 2017, ma che non è riuscita ad arrivare nelle tasche e al cuore della working class in questi anni di ripresa.

La vera sfida per Donald Trump, dunque, sarà quella di riunire un Paese tanto afflitto e diviso.