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Brasile, il gigante che scricchiola e non sogna più

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Il Brasile non sogna più. Scricchiola il gigante del Sudamerica sotto il peso dei suoi recenti scandali politici e di una crisi economica che non conosce precedenti. Saudade del sogno di riscatto venduto da Luiz Inácio “Lula” da Silva. Il contrasto fra l’allegria della samba, e la realtà a tinte scure che si respira lungo le strade del paese, dalla tentacolare San Paolo alla rampante Florianópolis, appare oggi quasi disarmante.

Il tasso di disoccupazione sfiora il 12%, e i prezzi segnano aumenti vicini al 10% annuo. Segnali di ripresa non ce ne sono. Scomparsa come una bolla di sapone anche l’onda mediatica delle Olimpiadi di Rio, finora niente è servito a risollevare il paese dal baratro in cui è piombata la sua economia. 

La telenovela degli scandali ha avuto per ora l’apice nella destituzione dell’ex presidente brasiliana Dilma Rousseff, lo scorso 31 agosto. Eppure, anche per chi ha vinto questa partita, il gioco resta duro, perché il Brasile sembra non aver più chiaro verso quale direzione muoversi. L’uomo che ha preso il posto di Dilma, il presidente ad interim Michel Temer, divide gli animi nei sondaggi, mentre sposta sempre più a destra le politiche del Paese. Facendo intravvedere ai brasiliani un amaro déjà-vu: lo spauracchio di una nuova dittatura, alle porte.

Lo scenario

Bisogna rimettere indietro le lancette dell’orologio al 6 settembre per capire la crisi che attanaglia oggi il Brasile: quel giorno Dilma Rousseff, salendo sul volo che dal palazzo presidenziale di Brasilia l’ha portata a Porto Alegre, sua città natale, ha chiuso per sempre un capitolo politico. Con lei non più al potere, è calato il sipario su un’era durata tredici anni — in cui il Partito dei lavoratori (Pt) ha governato regalando alle classi più povere del Brasile il sogno di una vita migliore.

All’inizio era stato Lula, il suo predecessore (in carica dal 2002 al 2010) a cavalcare il boom per creare uno stato sociale, seppure modesto. Passerà alla storia il provvedimento della Bolsa familia, ossia un versamento in contanti riservato a tutti quelli che vivono al di sotto della soglia di povertà: in tal modo, si sono liberati da questa piaga 45 milioni di persone, ossia un quarto della popolazione. 

Inoltre, in quegli anni d’oro, gli investimenti stranieri fioccavano e le riserve di petrolio crescevano in maniera costante. Poi il vento è girato: i prezzi delle materie prime, fra cui minerali ferrosi e l’oro nero, sono scesi; e si è anche fermata la domanda cinese di fagioli di soia, finora galoppante, di cui il Brasile è primo esportatore mondiale e la Cina primo compratore. Sotto Dilma, quelle conquiste sono andate in frantumi; la Presidenta è dovuta scendere a patti con la peggiore recessione dagli anni ’30, con l’economia che si è ridotta di quasi il 4% nell’ultimo anno. Prima della sua destituzione, è diventata il capo di stato meno amato della storia del paese.

La piaga della corruzione

Le inchieste hanno fatto il resto. Il Parlamento ha approvato l’impeachment nei suoi confronti, con l’accusa di aver truccato i conti pubblici prima delle ultime elezioni. Rousseff lo ha effettivamente fatto, nel tentativo di minimizzare l’impatto del crollo delle esportazioni brasiliane sulla spesa pubblica. Ma gli oppositori, fra cui l’ex presidente della Camera, Eduardo Cunha, arrestato lo scorso 19 ottobre, inizialmente suo alleato di partito, poi divenuto collaboratore stretto di Temer, e il leader della maggioranza del Senato, Romero Juca, l’aspettavano al varco.

Rousseff e alcuni osservatori politici internazionali lo hanno definito un colpo di stato costituzionale, volto a rovesciare un governo di sinistra regolarmente eletto. La querelle è tutt’oggi aperta. Perché a puntare l’indice contro lei c’è una classe politica abituata a mescolare affari e interessi personali. Cuhna è oggi reo di corruzione e riciclaggio nell’ambito dell’inchiesta sullo scandalo Petrobas, l’azienda petrolifera statale più importante nel paese; lo scorso 13 settembre il deputato evangelico ultraconservatore ha vestito i panni del suo primo accusatore, venendo espulso dal parlamento.

È stato spalleggiato da Juca, che in alcune registrazioni ha svelato come uno degli obiettivi dell’impeachment fosse proprio quello di insabbiare l’inchiesta Lava jato (autolavaggio), una sorta di “Mani pulite” che ha rilevato una intensa rete di tangenti tra i contratti firmati con Petrobras, altre grandi imprese del paese e la classe politica.

Peccato che questi non siano affatto casi isolati: volendo mettere a fuoco la situazione, l’ombra lunga degli scandali oscura tutto il parlamento: ben il 58% dei membri dell’istituzione che ha votato contro Dilma si trova sotto inchiesta per qualche motivo. Forse, come hanno chiesto molti esponenti del Pt, ci sarebbero stati i margini per rimettersi al verdetto delle urne, più che a quello della roulette russa del parlamento, per formare un nuovo governo fornito della legittimità necessaria a chiudere quella pagina.

Temer alla prova della governabilità

È con questo clima che dovrà fare i conti l’attuale presidente Temer. Nel Paese dove tutto va oltre l’immaginazione, è lui oggi a subire la gogna mediatica: deve rispondere di diversi capi di imputazione. In molti ritengono Temer farà passare a breve una qualche forma d’amnistia per tutti gli implicati in Lava jato. Secondo la Folha di San Paolo, il quotidiano più letto nel paese, la sua partita si giocherà su un terreno ben più paludoso: sulla capacità di traghettare il paese fuori dalla recessione, attraverso un piano di disinvestimenti importante che toccherà settori vitali dell’economia brasiliana. Mentre in parallelo, il parlamento sta ragionando sull’adottare misure di austerità per tagliare la spesa nell’istruzione e nello stato sociale.

Nessuno sa che tipo di Brasile emergerà da questo caos. Eppure nei corridoi di Wall Street un punto fermo è già stato messo: il gigante del Sudamerica non fa più parte del miraggio dei “Brics”, quel concetto ideato da Jim O’Neill dell’agenzia di rating Goldman Sachs nel 2001, e riferito a un quintetto di Paesi emergenti composto anche da Russia, India, Cina e Sudafrica, che aspirava a rivoluzionare il mondo a suon di tassi di crescita strabilianti. Il Brasile non è l’unico in crisi: anche alcuni suoi compagni di “crescita” ora hanno problemi economici evidenti.

Stabilità e democrazia in gioco

Una cosa sembra certa, indicano gli osservatori internazionali: il Brasile ne uscirà ancora più indebolito in termini di ricchezza, reputazione e anche di influenza internazionale. C’è chi sostiene che il divario tra ricchi e poveri ricomincerà a crescere, riportando di attualità vecchi retaggi coloniali e imperialisti, cioè la capacità di grandi imprese internazionali di mettere le mani sulle risorse del Paese. In settembre, Temer ha annunciato un piano colossale di rilancio, che include la vendita di quattro aeroporti e di due porti pubblici e offre una serie di contratti ad aziende private per realizzare nuove strade.

Ufficialmente è per ridare fiato all’economia e sostenere l’occupazione. Ma l’interessamento di grandi gruppi petroliferi esteri alla Petrobras, l’azienda di idrocarburi nazionale, dovrebbe far riflettere. Il Brasile può tornare terra di conquista da parte di capitali stranieri, e finire in balia dei loro interessi.

Dal punto di vista sociale, non si respira ancora il clima di una vera e propria lotta di classe, ma resta il fatto che qui i gruppi sociali del gigante dai piedi d’argilla del Sud America seguano una linea di demarcazione ben chiara: quella del colore della pelle. La metà bianca della popolazione è generalmente ricca, mentre i pardos (ossia i mulatti) e i neri sono generalmente poveri. Lungo le strade che in questi mesi hanno visto sfilare contro Dilma milioni di brasiliani, sono scesi solo bianchi, come interamente composto da bianchi è il governo creato dal presidente Temer. Anche le favelas sono in fermento, in vista dei tagli alla spesa sociale ventilata dal governo.

Con le manifestazioni che non cessano, e lo scontento che sta montando sempre più, la situazione sembra esacerbarsi. Cresce il numero degli intellettuali e di parti della classe media che ritengono questo clima adatto a essere usato come pretesto dalla destra politica brasiliana per aprire le porte del potere ai militari. Rispolverando così un copione molto amaro della storia contemporanea del Brasile.