Le Primavere arabe, le crisi politiche, l’emergenza migratoria e l’ascesa dello Stato Islamico nel Mediterraneo e in Medio Oriente hanno alimentato un vuoto di sicurezza al quale nessuno degli attori interni ed esterni alla regione ha saputo porre rimedio. Proprio questi eventi, che hanno provocato una perdurante crisi politica, una diffusa instabilità intra e transregionale, nonché una spiccata permeabilità dei confini, hanno permesso inoltre un’affermazione e legittimazione di alcuni attori criminali e non statuali: sono le premesse per un persistente problema di sicurezza che va ben oltre il Mediterraneo.
Stretta tra il persistere di più minacce simultanee sul piano interno (terrorismo, Sinai e opposizioni politiche islamiste) ed esterno (Libia e in misura minore lo Yemen) alla propria sicurezza, Il Cairo è da tempo interessata a ridefinire una propria politica estera, più realista e pragmatica. L’obiettivo è rendere l’Egitto più indipendente dalle classiche alleanze dello scacchiere mediorientale e internazionale.
Una prova di ciò è stata la decisione egiziana di recuperare il progetto di Joint Arab Military Force (JAMF). Tale proposta, avanzata dal presidente Abdel Fattah al-Sisi durante i lavori del summit straordinario della Lega Araba tenuto a Sharm el-Sheikh il 28-29 marzo scorsi, si sostanzia nell’istituzione di un comando interforze regionale di intervento rapido, concepito per inserirsi nelle zone ad alto potenziale di conflitto con compiti di stabilizzazione e pacificazione. La forza congiunta panaraba dovrebbe essere composta da 35.000 fanti, 5.000 unità navali e personale dell’aeronautica per un totale di circa 1.000 unità, con un comando unificato in Egitto o in Arabia Saudita. Il progetto, che rappresenta una riedizione di una vecchia proposta avanzata del presidente egiziano Nasser durante gli anni Sessanta, non è ancora operativo e, presumibilmente, vedrà ancora diversi mesi di trattative per stabilirne strutture e meccanismi. Le ambizioni per questa “NATO mediorientale” potrebbero trovare freno nelle riserve e nei distinguo di alcuni influenti protagonisti dello scacchiere strategico arabo-sunnita (tra questi soprattutto Algeria, Qatar, Emirati Arabi Uniti, ma anche la stessa Arabia Saudita). Infatti, oltre al timore di perdere influenza nei differenti contesti locali e transregionali, a paralizzare i meccanismi di messa a punto del dispositivo di sicurezza comune vi sono questioni di carattere tattico e strategico. In primo luogo, la proposta egiziana deve scontrarsi con quello che è già un esempio reale di gruppo interforze di difesa comune, ossia la “Peninsula Shield Force”, istituita nel 1984 tra le monarchie arabe del Golfo in funzione anti-sovietica ma anche anti-iraniana. In secondo luogo vi sono questioni tecniche ancora da definire: in particolare, la costituzione di un quartier generale (Il Cairo?) e/o di un comando operativo unificato (a guida saudita?) e poi la differente sensibilità di alcune capitali attori locali rispetto a un’alleanza formale oppure a un semplice patto di mutua assistenza collettiva esente da clausole restrittive.
Date le difficoltà esistenti per la realizzazione del JAMF, ma anche data la sua volontà di non dipendere solo e unicamente dagli aiuti economico-militari statunitensi, Al-Sisi ha ripiegato rapidamente verso forme consolidate di cooperazione militari e politiche bilaterali, come quelle con la Russia. Si inseriscono in questo contesto le esercitazioni navali al largo di Alessandria “Bridge of Friendship 2015” (giugno 2015) o la proposta russa di creare un centro di coordinamento per combattere il terrorismo islamista – divenuto per entrambi una necessità impellente alla luce degli eventi nel Sinai con l’abbattimento dell’aereo civile della compagnia russa Metrojet. Il modello potrebbe essere quello dei centri analoghi già sorti a Baghdad e Amman. Queste iniziative testimoniano non solo una sfida diretta alla strategia mediorientale degli Stati Uniti (e al ruolo potenziale della NATO), ma anche un altro segnale di conferma dello shift egiziano verso Mosca, iniziato nel novembre 2013 con la firma dell’accordo di rifornimento tecnico-militare da quattro miliardi di dollari, finanziato dagli alleati del Golfo.
Del resto, l’interventismo mediorientale della Russia e in particolar modo nel contesto siriano riflette la volontà di salvaguardare i propri interessi nell’area anche per riempire quel vacuum politico scaturito dalla ridefinizione della politica estera statunitense. Uno strumento classico adottato da Mosca è in tale contesto l’aumento del proprio export militare – attualmente la principale arma diplomatica che la Russia può attivare. Nel caso specifico della Siria si sono registrati importanti effetti del coinvolgimento militare diretto russo: i raid aerei e il lancio di missili da crociera dal mar Caspio contro alcune delle forze che si oppongono ad Assad hanno creato le condizioni per l’incidente diplomatico con la Turchia per l’abbattimento del Sukhoi russo. Come per l’episodio dell’aereo civile nei cieli del Sinai, ci sono benefici ma anche costi per Mosca.
Il coinvolgimento russo in Siria e in Medio Oriente ha comunque colto impreparata la NATO. Al di là delle esercitazioni Trident Juncture 2015, le più importanti operazioni dai tempi della guerra fredda nell’area, l’Alleanza atlantica ha negli ultimi mesi collocato il Mediterraneo in secondo piano come livello di priorità, definendo un suo riposizionamento strategico in Europa centro-orientale in funzione anti-russa. Tale scelta ha lasciato scoperto il fianco sud e orientale mediterraneo, favorendo le azioni isolate di alcuni paesi membri (USA, Francia, Regno Unito e Turchia) contro ISIS nel “Syraq” ma anche già nel 2011 in Libia. Per essere in grado di rispondere efficacemente alle nuove minacce locali, la NATO dovrebbe andare oltre gli schemi già sperimentati (ad esempio l’Istanbul Cooperation Initiative, che coinvolge Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Kuwait), ed elaborare un nuovo concetto strategico per il Mediterraneo. Gli strumenti idonei ad un approccio più efficace (seppure di per sé non risolutivo) nella regione sono piuttosto noti: una maggiore cooperazione con alcuni dei paesi dell’area, investimenti nel comparto difesa e una maggiore capacità di pronta risposta alle minacce. In sostanza, si tratterebbe di mutuare in certa misura il modello già in essere sul fronte orientale europeo (si vedano le esercitazioni navali e militari nel mar Nero e nel mar Baltico).
Dato un contesto regionale sempre più internazionalizzato, mutevole e complesso, l’Egitto, ma anche la Russia e la NATO nel suo complesso agiscono ognuno in ordine sparso, con una postura strategica non totalmente definita e soprattutto inadeguata alle sfide odierne. Infatti, l’assenza di una politica estera, intesa come visione strategica complessiva anche di medio e lungo periodo, non può essere compensata dall’adozione di misure militari e di corto respiro. Le risposte immediate, ma non definitive rispetto all’origine dei problemi o all’equilibrio di forze, non colmeranno quel gap politico che rende per ora impossibile una stabilizzazione del Mediterraneo sud-orientale.