Se eletta, Hillary Clinton non sarebbe solo la prima donna alla Casa Bianca (e, per pochi mesi, il secondo presidente per anzianità, dopo Ronald Reagan), ma anche il primo segretario di Stato che conquista la presidenza dai tempi di James Buchanan (1857 – 1861, non un luminoso precedente, peraltro).
Qualsiasi previsione sulla politica estera di un’ipotetica “amministrazione Hillary” cozza contro una triplice difficoltà. La prima è che a dispetto delle energie spese dagli studiosi nell’analisi e comparazione delle grandi strategie passate, la storia delle relazioni internazionali (e con essa quella della politica estera degli Stati Uniti) è spesso il prodotto d’imprevisti, contingenze, errori, casualità. È una storia precaria e non di rado accidentale, come la ricerca d’archivio invariabilmente ci rivela. Ed è una storia alla quale tendiamo a conferire coerenza ex post, imbrigliandola nei nostri modelli e nella definizione di una causalità tanto necessaria alla narrazione quanto spesso artificiosa e imposta.
La seconda difficoltà è dettata dal fatto che i margini di manovra creativa nella politica estera della principale potenza mondiale sono assai più stretti di quanto non si creda. Costrizioni esterne e, ancor più, vincoli politici interni limitano la libertà d’azione e, con essa, la capacità dei presidenti americani di distanziarsi radicalmente dalle scelte dei predecessori, come lo stesso Obama ha dovuto ben presto riconoscere.
Infine, la Hillary Clinton segretario di Stato ci lascia in dote relativamente poco per prevederne comportamenti e scelte da presidente. Le sue memorie dei quattro anni trascorsi alla guida della diplomazia statunitense sono tanto dense quanto politicamente (e narrativamente) insipide. La sua estrema disciplina l’ha portata a limitare al minimo le critiche al presidente, del quale peraltro pare non apprezzare il pragmatismo al ribasso, la ritrosia all’utilizzo dello strumento militare e la scarsa inclinazione a parlare l’argot della geopolitica e delle grand strategies.
I punti di riferimento intellettuali di Hillary Clinton, così come le analogie storiche che sembrano ispirarne la visione e le proposte politiche, sono a loro volta piuttosto eterogeni. Il primo è Henry Kissinger, che l’ex segretario di Stato di Obama non manca di omaggiare e celebrare. È il Kissinger “ortodosso” – l’esponente cioè di un realismo tutto geopolitico, capace di offrire analisi olistiche e onnicomprensive del contesto internazionale – quello che la Clinton prende a modello e riferimento (un Kissinger, insomma, idealizzato e ben lontano dalla realtà). Ed è un Kissinger al quale si affiancano, in modo piuttosto incongruo, sia i liberal interventisti sia alcuni esponenti del neoconservatorismo più dotto e meno compromesso, su tutti figure come quel Robert Kagan che la Clinton chiamò come consulente esterno nel 2011. Le lezioni della storia a cui guarda la candidata presidenziale ad oggi favorita, e che spesso compaiono nei suoi discorsi e scritti, sono quelle offerte dalla guerra fredda e, ancor più, dagli anni Novanta. Modelli analogici dalle prescrizioni inequivoche, secondo questa lettura, che devono ispirare l’agire di una potenza capace di affrontare un nemico assoluto (come fu l’URSS) ovvero gestire la transizione a un nuovo ordine internazionale, minimizzando i conflitti, garantendo la stabilità ed estendendo contestualmente il proprio primato globale.
Cosa esce da questa miscela piuttosto sincretica e quali indicazioni si possono trarre? Il primo è l’elemento realista, tanto analitico (così funzionano le relazioni internazionali) quanto prescrittivo (così ci si deve comportare sulla scena internazionale), che la Clinton talora ostenta, ben consapevole che nell’America odierna questo discorso disincantato e concreto piace e aiuta a costruire consenso. Un esempio lo abbiamo visto in occasione delle primavere arabe, e in Egitto in particolare, quando da segretario di Stato assunse un atteggiamento scettico, assai lontano dall’entusiasmo degli obamiani “doc”, e rimarcò sia l’importanza strategica del Cairo sia l’acclarata affidabilità di un alleato come Mubarak.
Questo realismo è però temperato, o integrato, da una robusta dose di “istituzionalismo”, che rimanda anch’essa a una delle grandi lezioni della guerra fredda, per come questa si dispiegò in particolare nello spazio transatlantico: la necessità, cioè, che la leadership degli Stati Uniti si eserciti attraverso la costruzione di una rete formalizzata di accordi e alleanze. Ne deriva dunque che la legittimazione di quella leadership – e quindi la sua effettiva efficacia – avvenga attraverso (e dipenda da) la sua piena istituzionalizzazione. Da segretario di Stato, Hillary Clinton ha traslato questa lezione al nuovo cuore delle relazioni internazionali, quello spazio dell’Asia-Pacifico dove corrono oggi, profonde e contraddittorie, alcune delle più importanti interdipendenze dove il tentato re-balancing promosso dagli Stati Uniti passa anche attraverso nuovi e ambiziosi processi d’istituzionalizzazione (l’opposizione della Clinton al Trattato di Libero Scambio Transpacifico – TPP – è un ovvio, finanche grossolano, espediente elettorale, destinato a essere riposto nel cassetto non appena la pratica delle primarie sarà archiviata).
Il terzo elemento del sincretismo clintoniano è rappresentato dalla fiducia nella potenza militare statunitense e nella sua spendibilità in teatri di crisi, come ben si è visto sull’Afghanistan, quando nel 2009 l’allora segretario di Stato si schierò con i generali, e contro il presidente, nel sostenere un’escalation più ambiziosa e impegnativa di quella in ultimo autorizzata da Obama. Qui la lezione della guerra fredda s’intreccia con quella degli anni Novanta: con l’applicabilità di quella dottrina dell’interventismo liberale i cui successi, presunti o reali, molti clintonistas continuano a rivendicare con malcelato orgoglio. I commentatori spesso amano contrapporre la Hillary cauta e realista della prima amministrazione Obama con quella idealista – perfino ingenua – che arringò la conferenza mondiale sulle donne di Pechino del 1995. In realtà, si tratta di una contrapposizione falsa e comunque grandemente esagerata. Nell’universo clintoniano, di Hillary come Bill, vi è un regno del possibile che fissa un perimetro oltre il quale non si può andare. Ai limini di quel perimetro si può però giungere solo grazie all’intervento degli Stati Uniti, potenza indispensabile anche per i mezzi impareggiabili di cui essa dispone.
Con Hillary Clinton presidente ci si può pertanto attendere un discorso di politica estera più ruvido e meno articolato (e sofferto) di quello di Obama, contraddistinto da una minor ritrosia a utilizzare la leva militare. Anche se poi saranno le contingenze, e gli imprevisti, a definire la politica estera del prossimo presidente, chiunque sarà alla Casa Bianca a partire dal gennaio 2017.