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Come l’America discute di politica estera dopo gli attentati di Parigi

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Che fare, dopo i massacri di Parigi? Il presidente francese François Hollande ha dichiarato che gli attentati costituiscono un “atto di guerra” ma lo Stato Islamico non ha un palazzo del governo, degli ambasciatori, dei confini da valicare con una colonna di mezzi blindati. Se per qualche tempo è sembrato che la sua strategia di occupazione del territorio lo differenziasse da Al-Qaeda, un gruppo puramente terroristico, ora l’ISIS sembra piuttosto un franchising in cui esiste sì un quartier generale provvisoriamente insediato nella città siriana di Raqqa, ma il brand attira imitatori e sostenitori ovunque vi siano giovani musulmani radicalizzati da quella che percepiscono come la guerra senza fine lanciata da Stati Uniti e Francia contro l’Islam. Gli attentatori identificati ufficialmente fin qui sono tutti di nazionalità francese o belga. Francesi erano anche i fratelli Saïd Kouachi e Chérif Kouachi, autori dell’attacco contro il settimanale Charlie-Hebdo nel gennaio scorso e il loro complice Amedy Coulibaly, responsabile dell’attacco a un supermercato kosher negli stessi giorni: tutti nati e cresciuti in Francia.

Certo, si può bombardare Raqqa, intensificare l’uso dei droni contro i leader dell’ISIS, aumentare le operazioni di commando nel nord dell’Iraq e della Siria ma Hollande non dovrebbe farsi illusioni: come ha scritto Foreign Affairs in un fascicolo del 2014 significativamente intitolato “What Have We Learned? Lessons From Afghanistan & Iraq”, la maggior parte dei politici americani ha tratto una solida lezione da ciò che è accaduto dal 2001 in poi: Never put boots on the ground, mai mandare truppe sul campo. Trump e altri showman impegnati nelle primarie del Partito Repubblicano possono minacciare sfracelli, ma la realtà è che a Washington il desiderio di nuove avventure militari è minimo.

Non c’è di che stupirsi: il bilancio umano, sociale, economico delle due guerre iniziate da George W. Bush è catastrofico. Secondo lo Watson Institute della Brown University, circa 210.000 civili sono morti direttamente per cause belliche, mentre un numero molto superiore è morto come conseguenza indiretta della violenza, per malnutrizione, malattie, danni al sistema sanitario e all’ambiente. A questi costi inflitti alle popolazioni di Afghanistan, Pakistan e Iraq si aggiungono le perdite umane subite dagli Stati Uniti e dai loro alleati, ufficialmente circa 6.800 morti sul campo. In realtà, sottolinea lo studio, ai militari uccisi vanno aggiunti i mercenari (contractors) ampiamente usati dall’amministrazione Bush, in particolare in Iraq, i quali hanno avuto da soli circa 7.000 morti. Complessivamente, i feriti e gli invalidi hanno raggiunto la stupefacente cifra di quasi un milione.

I costi puramente economici della guerra per gli Stati Uniti non sono stati minori, se agli stanziamenti iscritti a bilancio si aggiungono tutte le voci che normalmente vengono ignorate, come i costi futuri delle cure sanitarie ai reduci, gli interessi sui debiti contratti per finanziare le operazioni, la mancata crescita dovuta ai mancati investimenti in infrastrutture o in ricerca a causa delle spese militari. Si tratta di circa 4.400 miliardi di dollari secondo i calcoli dello Watson Institute ma una semplice occhiata ai dati del debito federale permette di scoprire che gli attentati dell’11 settembre e le invasioni dell’Iraq e dell’Afghanistan hanno innescato una spirale senza precedenti: il debito federale quando Bush entrò in carica era 5.770 miliardi di dollari, quando passò le chiavi della Casa bianca a Obama era raddoppiato: 11.880 miliardi di dollari. A sua volta, Barack Obama ha fatto appena meglio: secondo le stime governative nell’anno fiscale 2016 il debito sarà 19.330 miliardi.

Arrivato al potere sull’onda di un forte rigetto degli americani verso le politiche di Bush (già nel 2006 i Democratici avevano conquistato la maggioranza in Congresso), Obama sembrava voler impostare la sua politica estera nel segno della discontinuità: il suo primo Executive order, firmato il giorno stesso dell’insediamento, trattava della chiusura di Guantánamo. Come sappiamo, sette anni dopo Guantanámo è ancora in funzione e simboleggia efficacemente i limiti (istituzionali e personali) dell’azione del presidente democratico. Da senatore, Obama aveva votato inoltre contro l’invasione dell’Iraq (al contrario di Hillary Clinton) e, da presidente, si è concentrato sulla promessa di riportare le truppe a casa da quel teatro di combattimenti. C’è riuscito soltanto a fine 2011, e soltanto parzialmente. Il prezzo pagato è stato l’espansione dello Stato Islamico, che approfittando della rivolta contro il regime di Bashar al-Assad in Siria ha prima conquistato ampie porzioni di territorio di quel paese e poi si è impadronito del nord dell’Iraq – trovando resistenza soltanto da parte dei curdi, che solo negli ultimi mesi sembrano aver recuperato terreno. In Afghanistan, Obama ha scelto la strada della “guerra limitata”, ampliando fortemente l’uso di attacchi mirati con i droni (allargati intanto anche al Pakistan e allo Yemen) al prezzo dell’uccisione di numerosi civili e del bombardamento accidentale di scuole e ospedali. Ha mantenuto fino a quest’anno il calendario di ritiro dal paese dopo il breve periodo di aumento delle truppe chiesto dai generali –  il cosiddetto surge –  ma ha poi annunciato a metà ottobre che il numero di soldati americani che rimarranno in Afghanistan l’anno prossimo, quasi 10.000, sarà superiore alle promesse fatte. Una dimostrazione evidente che i talebani sono tutt’altro che sconfitti.

Questa strategia ha avuto il vantaggio di non richiedere il dispiegamento di grossi contingenti di nuove truppe all’estero che l’opinione pubblica avrebbe rifiutato ma, naturalmente, ha il limite di avere un’efficacia modesta: contro avversari motivati e legati al territorio come i talebani o i combattenti dello Stato Islamico occorre, prima o poi, avere truppe addestrate, e in numero sufficiente, sul posto. Per una scelta di questo genere, tuttavia, Obama sarà ben lieto di lasciare la patata bollente ad Hillary Clinton: gli attentati di Parigi non gli faranno cambiare strategia negli ultimi 14 mesi del suo mandato.

Dopo sei anni e dieci mesi al potere si può trarre un bilancio storico-politico della sua azione: sostanzialmente Obama non ha respinto il progetto “imperiale” dei suoi predecessori ma, da buon realista, ha cercato di gestirne il fallimento. Che di fallimento si tratti non c’è dubbio: in questi anni, non c’è stato quel “ridisegno” della mappa del Medio Oriente con l’installazione ovunque di regimi amici a cui ambivano i neoconservatori. Al contrario, il caos è aumentato (anche a causa della politica francese in Libia e in Mali) e numerosi paesi sono in preda alla guerra civile, dalla Siria allo Yemen. Obama è stato un realista, molti direbbero cinico, nella sua politica estera. Non a caso, le figure-modello in politica estera a cui Obama dichiarava di ispirarsi ancora prima di venire eletto erano George C. Marshall, Dean Acheson e George F. Kennan: uomini della guerra fredda, abili tanto nella diplomazia quanto nella valutazione dei rapporti di forza. Il realismo gli ha consentito di prendere atto dei limiti strutturali all’azione americana e di respingere le pressioni per un attacco all’Iran, con cui invece ha concluso uno storico accordo, ma lascia aperte tutte le questioni che le guerre di Bush hanno fatto esplodere.

Il nuovo presidente eletto nel 2016 dovrà fare i conti con i vincoli sistemici che riducono la libertà d’azione degli Stati Uniti e cioè le limitazioni di bilancio, le capacità d’azione militare, i rapporti con gli alleati. L’apparente incertezza e contraddittorietà della politica estera di Obama su numerosi fronti, dalla Siria alla Russia e alla Cina, sono in realtà l’espressione dell’estrema difficoltà di condurre una politica “imperiale” quando si è un paese indebitato e con un’opinione pubblica vaccinata contro le avventure militari all’estero.