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La sorpresa del primo turno presidenziale in Argentina: un paese in bilico

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Domenica 22 novembre è una data da segnare per l’Argentina: contrariamente a quanto annunciavano sondaggi e gran parte dei media alla vigilia, il candidato del Frente para la Victoria, ovvero il partito del peronismo in versione kirchnerista Daniel Scioli non ha vinto al primo turno, né è stato proclamato presidente dell’Argentina. No, per conoscere il successore di Cristina Fernández de Kirchner bisognerà attendere ancora il secondo turno tra 28 giorni. 672 ore che si preannunciano senza esclusione di colpi tra lo stesso Scioli e Mauricio Macri, già presidente del Boca Junior (la squadra di calcio), per otto anni a capo del governo di Buenos Aires, che oggi guida una coalizione – “Cambiemos” – con il suo principale obiettivo nel nome stesso: cambiare per porre fine a 12 anni consecutivi di potere kirchnerista.

La campagna elettorale che attende l’Argentina nelle prossime quattro settimane sarà rovente e senza precedenti per molti motivi.

Il primo è che nella storia democratica recente del paese – ovvero quella post-dittatura di Videla e dei 30.000 desaparecidos, dal 1983 ad oggi – mai un presidente è stato eletto con il ballottaggio. Nel particolare sistema argentino, infatti, per vincere al primo turno basta il 45% dei voti utili oppure anche solo il 40% se con un vantaggio sul secondo di oltre 10 punti percentuali. Da Raúl Alfonsín a Carlos Menem, passando per De La Rúa sino ai tre mandati consecutivi della coppia Kirchner, tutti gli inquilini della Casa Rosada eletti con suffragio popolare – ovvero escludendo i quattro presidenti tra la fuga di De La Rúa in elicottero del 20 dicembre 2001 e l’arrivo, il 2 gennaio del 2002, del nominato/salvatore Eduardo Duhalde – vinsero appunto senza bisogno di un secondo turno.

Altro motivo per cui, da qui al 22 novembre, il clima tra il peronista/kirchnerista Scioli e l’imprenditore di centro-destra Macri sarà “da mezzogiorno di fuoco” è che in gioco c’è la gestione dell’apparato di potere della terza economia sudamericana dopo Brasile e Colombia.

Il terzo motivo è dato poi dalla continuità o meno di un modello economico – quello kirchnerista – che sino al 2011 aveva funzionato tutto sommato bene. Néstor e la Cristina degli inizi erano infatti riusciti a far uscire il paese dalla drammatica crisi di fine 2001-inizio 2002 e a garantire una crescita sostenuta affiancata da politiche redistributive in favore delle fasce più povere della popolazione. Il problema è che da fine 2011 – ovvero dall’inizio del suo secondo mandato – la presidente Kirchner ha imposto una serie di nuove misure: ha imposto un ferreo controllo sul cambio, poi ha cercato inutilmente di controllare i prezzi al consumo per frenare un’inflazione non dichiarata del 30% (per il “taroccato” Istat argentino l’inflazione era del 10%, una percentuale così irreale da costringere The Economist addirittura a scriverci un editoriale), dulcis in fundo ha iniziato a sussidiare sempre più il settore energetico a costi esorbitanti per le casse statali e tentando di coprire il deficit con la stampa di banconote a più non posso. Una sequela di errori così evidenti che da allora – oltre a far scendere le riserve della Banca centrale a livelli pericolosi – ha ridotto significativamente il potere d’acquisto del salario degli argentini, eroso da un’inflazione che è stata appunto nascosta dal governo nella sua reale entità.

È soprattutto per questo motivo che il 25 ottobre Scioli non ha vinto al primo turno, contrariamente alle attese e nonostante avesse promesso più moderazione rispetto a Cristina, con politiche economiche più “ortodosse”. A cominciare da una possibile revisione in merito al cepo, il ferreo controllo del cambio che, come unica conseguenza, ha fatto nascere un mercato delle valute parallelo in cui il dollaro e l’euro oggi valgono oltre il 60% in più rispetto al peso argentino “ufficiale”.

Con il 96,48% delle urne scrutinate, Scioli è comunque davanti al suo rivale, con il 36,8% rispetto al 34,39% ottenuto da Macri. Obiettivo per entrambi adesso è attirare dalla loro parte la maggior parte possibile degli oltre 5 milioni (il 21,33%) che hanno votato per Sergio Massa, un ex kirchnerista che in campagna elettorale aveva puntato tutto con il suo partito, l’UNA – Uniti per una nuova alternativa – sulla “sicurezza”. Possibile che in vista del secondo turno Massa possa dare il suo appoggio a Macri in cambio di incarichi ma, in tal caso, sia l’ex ministro dell’Economia Roberto Lavagna che il governatore di Cordoba José Manuel de la Sota – i due suoi alleati più carismatici nell’UNA – hanno già chiarito che non lo seguiranno. Inoltre gli elettori di Massa non è detto che seguano le sue eventuali indicazioni. Probabile che votino per Scioli, invece, la maggior parte dei circa 800.000 elettori che al primo turno hanno scelto Nicolas Del Caño, dell’alleanza Frente de Izquierda, mentre è difficile dire dove andrà l’oltre milione di suffragi che si sono suddivisi gli altri due candidati, Margarita Rosa Stolbizer dell’Alianza Progresista ed Adolfo Rodriguez Saa di Compromiso Federal.

Certo è che la possibile vittoria di Macri è ancora lontana. In primis per la grande capacità di reazione del peronismo, che possiede strutture di gran lunga superiori a quelle di tutti gli altri partiti/coalizioni. Poi per l’alto numero di persone che, pur essendo anti-kirchneriste, non sono disposte a votare per un candidato di destra come l’ex presidente del Boca – basti pensare in tal caso ad uno dei più feroci critici della presidente Cristina, il giornalista investigativo Jorge Lanata che ha già detto “non voterò mai per Macri”. Infine un dato, che non deve essere preso come oro colato ma, comunque, delinea bene quale sia la realtà politica del paese del tango: mai nella storia democratica recente dell’Argentina un presidente non peronista è riuscito a finire un suo mandato. Alfonsín fu infatti costretto a dimettersi poco prima della scadenza a causa di un’iperinflazione che ne aveva eroso drammaticamente il consenso, era il 1989, mentre di De La Rúa si ricorda la vergognosa fuga dalla Casa Rosada in elicottero, in pieno default di fine 2001.

È però anche vero che dire “peronismo” in Argentina significa tutto e l’esatto suo contrario. Basti pensare che tali sono sia Menem – presidente simbolo per eccellenza di neoliberalismo, Washington Consensus ed FMI – sia i Kirchner, filo-bolivariani e nemici giurati dell’ALCA, l’alleanza di libero commercio delle Americhe affossata proprio a Mar del Plata nel 2005 (quando il presidente venezuelano Hugo Chávez guidò la battaglia, applaudito da Néstor).  

Visto il risultato del primo turno, possiamo dire che è servito a poco l’aumento di quasi il 300% nelle spese pubbliche in ottica pre-elettorale di Cristina Kirchner che, secondo gli analisti, costringerà chiunque tra Scioli o Macri le succederà il prossimo 10 dicembre a mettere mano ad un deficit che sarà di almeno il 7% a fine 2015, un’enormità per un paese come l’Argentina di oggi, con una crescita stagnante.

Staremo a vedere se Scioli riuscirà a riprendersi dalla débâcle inattesa – tutti i kirchneristi pensavano di ottenere almeno 8-12 punti percentuali di vantaggio su Macri, e non meno del 3% come è invece accaduto. Due gli errori commessi da Cristina Kirchner: il primo, quello di avere indicato Scioli “a dedo”, ovvero personalmente, senza fargli vincere (o perdere) le primarie, ed escludendo così a priori il ministro dei Trasporti Florencio Randazzo, più gradito dai kirchneristi più giovani/radicali che considerano Scioli troppo “moderato” e poco “di sinistra”; il secondo, ancora più grave, è stato però la candidatura di Anibal Fernández a governatore nella decisiva provincia di Buenos Aires, collegio elettorale che da solo garantisce oltre il 35% dei suffragi. La sconfitta di questo fedelissimo di Cristina per mano della 42enne “macrista” Maria Eugenia Vidal – vicesindaco uscente di Buenos Aires, una carneade o poco più rispetto ad Anibal – è un colpo al cuore per la Kirchner. Ed un pessimo segnale per le aspirazioni presidenziali di Scioli.