La notizia è passata quasi inosservata in Occidente: per la prima volta dal 1981, anno della sua fondazione, le monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) hanno inviato soldati al di fuori dei loro confini (escludendo le operazioni multilaterali di supporto alla pace), in Yemen. Dopo aver addestrato ed equipaggiato l’esercito regolare e le milizie sunnite, inefficacemente bombardato (dal marzo 2015) e infiltrato unità militari nella città contesa di Aden, le monarchie del Golfo hanno così scelto di intervenire direttamente nel paese (con almeno 5.000 uomini, anche se le cifre sono incerte). Lo scorso 4 settembre, la morte di 64 militari (45 emiratini, 10 sauditi, 5 bahreiniti, 4 yemeniti), causata dall’esplosione di un missile dei ribelli huthi nei pressi di un deposito di munizioni nell’area centrale di Mareb, ha dissolto il riserbo ufficiale sull’impegno di terra della coalizione.
L’ulteriore escalation del conflitto yemenita offre almeno tre elementi di analisi. Il primo riguarda la regionalizzazione della crisi dello Yemen, seconda – per interessi e attori coinvolti – solo a quella siriana. Il conflitto fra le istituzioni ad interim appoggiate dall’Arabia Saudita e Ansarullah (il movimento politico-militare degli huthi, i ribelli sciiti del nord sostenuti dall’Iran e alleati dell’ex presidente Saleh) ha radici interne e natura politico-territoriale, ma ha ormai acquisito un respiro regionale. Ciò significa che, paradossalmente, non possono che essere le potenze regionali, Riyadh e Teheran, a trovare ora una soluzione politica per il rebus Yemen – specie sulla questione dell’unità del paese – e convincere le molte milizie tribali a osservarla sul campo. Tuttavia, l’inasprimento degli scontri militari sul fronte siriano, con l’ingresso ufficiale della Russia nel conflitto e il conseguente rafforzamento dell’asse sciita Damasco-Iran-Iraq, rischia di esasperare lo scontro fra sauditi e iraniani anche a Sana’a. Da una prospettiva diplomatica, il Sultanato dell’Oman e le Nazioni Unite non hanno mai smesso di mediare, con grandi difficoltà, sulla base della risoluzione 2216 del Consiglio di Sicurezza (ritiro delle milizie sciite dai territori occupati e restituzione delle armi sottratte all’esercito). Un piano che il partito di Saleh e gli huthi si dichiarano ora pronti ad accettare (in cambio dello stop ai bombardamenti e alla fine dell’embargo), ma che richiede il consenso di tutte le parti, in primis del governo e della coalizione saudita.
Il secondo elemento di riflessione riguarda le modalità di politica estera dell’Arabia Saudita e delle monarchie alleate, in particolare gli Emirati Arabi Uniti (EAU). Dopo le rivolte arabe del 2011 e il disgelo fra l’Iran e la comunità internazionale, i sauditi hanno abbracciato una politica estera contro-rivoluzionaria e militarmente più assertiva del recente passato. Una svolta di politica regionale accentuatasi, dal gennaio 2015, con l’ascesa di re Salman al trono e l’inizio del “condominio competitivo” attorno al capo dello Stato: quello tra il principe ereditario e ministro degli Interni Muhammad bin Nayef, e il vice crown prince e ministro della Difesa Muhammad bin Salman. In Yemen, i sauditi sono andati ben al di là dei loro tradizionali vettori di politica estera, ovvero il sostegno alle milizie tribali su base transnazionale e l’uso strategico della rendita energetica (sotto forma di aiuti militari ed economici), fino ad arrivare al coinvolgimento militare, sia aereo che di terra. Tuttavia, la stabilità del confinante Stato yemenita è da sempre considerata questione di sicurezza nazionale e di politica interna dagli Al-Saud; dunque non è affatto detto che Riyadh investirebbe le stesse risorse operative in altri teatri mediorientali. Inoltre, la “campagna di Yemen” ha unito l’opinione pubblica saudita, a differenza delle scelte di politica estera su Siria ed Egitto, vissute con difficoltà dai settori dell’Islam saudita che si rifanno alle frange più estreme del salafismo e alla Fratellanza musulmana. Così, la lotta agli sciiti zaiditi di Yemen, sostenuti dal “nemico Iran”, ha galvanizzato gli spiriti settari, compattando il fronte sunnita interno e permettendo al sovrano di proseguire il percorso di riavvicinamento con gli Ikhwan (i Fratelli musulmani, da sempre questione delicata per la stabilità del Regno, ma anche quella regionale viste le loro diffuse ramificazioni). Per evidenti timori interni, solo l’area più giovane e movimentista della comunità sciita saudita (prevalentemente duodecimana, come gli iraniani) ha provato a contestare i bombardamenti sugli huthi (di rito zaidita).
Vi è poi un terzo elemento di riflessione: nonostante la cronica fragilità istituzionale, lo Yemen cerca comunque di perseguire una sua politica estera. Il presidente ad interim Abdu Rabu Mansur Hadi ha adottato l’approccio settario anti-iraniano e anti-sciita esattamente per mascherare la debolezza della propria leadership e l’incapacità di tenere unito lo stesso fronte sunnita. In questo senso, additando e spesso ingigantendo le ingerenze del “nemico esterno”, la politica estera diviene uno strumento di rinforzo del regime interno (come già usava fare Saleh). Fa riflettere che Hadi, nel suo discorso all’Assemblea Generale dell’ONU, abbia definito Ansarullah una “milizia criminale”, che vuole “imporre il modello iraniano con l’uso della forza” mentre, nella medesima sede, il ministro degli Esteri saudita Adel al-Jubeir, pur deplorando il ruolo della milizia sciita, abbia ammesso che il movimento zaidita “è parte del tessuto sociale yemenita”. Dopo un anno di dialogo nazionale, gli huthi hanno fatto deragliare la transizione per bloccare la riforma federale del paese: questa è la riprova che lo showdown è avvenuto su questioni “materiali” di risorse e potere (dunque politiche) e non su dispute teologiche di setta.
In questo conflitto, gli Stati Uniti – che secondo varie fonti avrebbero raddoppiato i consiglieri militari presenti in Yemen e proseguono gli attacchi con i droni contro AQAP (l’acronimo di Al-Qaeda nella Penisola arabica) – hanno fin qui lasciato ampio margine di manovra all’Arabia Saudita. E ciò nonostante i periodici imbarazzi per le molte vittime civili dei bombardamenti della coalizione (ma anche di Ansarullah che, come denuncia Human Rights Watch, non ha esitato a sparare contro i civili ostili alla loro avanzata), nonché per l’uso di bombe a grappolo. In Consiglio Diritti Umani delle Nazioni Unite, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia hanno ottenuto il ritiro, da parte dell’Olanda, di una risoluzione che domandava un’inchiesta internazionale per violazioni del diritto internazionale umanitario; l’unico testo depositato è stato, alla fine, proprio quello saudita, che propone una commissione d’inchiesta yemenita (dunque più facilmente influenzabile).
L’intervento di terra delle monarchie del CCG ha permesso all’esercito yemenita di liberare Aden, alcuni governatorati del sud e l’area commerciale strategica dello stretto del Bab el-Mandeb. Tuttavia, la strada è impervia, visto che le popolazioni che abitano la capitale e il nord del paese sostengono l’alleanza huthi-Saleh (a differenza del sud): nella coalizione, solo gli EAU hanno esperienza di counter-insurgency, maturata nell’Helmand afghano, durante la missione ISAF della NATO.
La vera incognita è se le forze regolari yemenite riusciranno a controllare il territorio recuperato, mettendolo davvero in sicurezza. Nonostante Hadi (per alcuni giorni) e Bahah siano tornati ad Aden, il distretto portuale della città vede la crescente presenza dei vessilli neri di AQAP, mentre i secessionisti meridionali che hanno lottato contro gli huthi non l’hanno fatto per ritornare nell’alveo delle istituzioni internazionalmente riconosciute, ma per affermare un’autonomia che – nei fatti – è già realtà. L’attacco del 6 ottobre contro l’hotel di Aden che ospita Bahah e alcuni ministri -parzialmente distrutto da due autobombe rivendicate dal sedicente Stato Islamico – testimonia che il complesso conflitto yemenita ha aperto nuovi spazi per il terrorismo jihadista. E che il paese sarà sempre più esposto alle tensioni geopolitiche regionali.