international analysis and commentary

Antiche e nuove tensioni in Asia orientale: un graduale riassetto in corso

285

La seconda economia mondiale può mostrare segni di cedimento, ma non rinuncia all’ambizione di assumere il ruolo di potenza militare globale. Era facile prevederlo e se ne è avuta una prima riprova dal messaggio lanciato da Pechino attraverso le celebrazioni del 3 settembre, con annessa parata militare in grande pompa, per il 70esimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale (per i cinesi la “guerra mondiale antifascista e di resistenza del popolo cinese contro l’aggressione giapponese”). L’evento ha nel contempo confermato la fase di criticità nei rapporti di Pechino sia con Washington che (più esplicitamente) con Tokyo.

Barack Obama, pur formalmente invitato, si è limitato a mandare l’ambasciatore americano Max Baucus, viatico assai poco incoraggiante per la visita negli Stati Uniti del presidente Xi Jinping, fissata per la fine di settembre. Il premier giapponese Abe Shinzo ha fatto di peggio, rifiutandosi di partecipare a un avvenimento concepito, a suo dire, per intimorire sia i vicini sia gli stessi Stati Uniti: per la prima volta sono stati mostrati i missili balistici in grado di colpire l’America. Un avvenimento, per di più, permeato (per evidenti ragioni storiche) di toni antigiapponesi seppure formalmente – come hanno ribadito i cinesi – “non mirato contro il Giappone di oggi”. Il quadro strategico che ruota intorno al riequilibrio delle forze in Asia, insomma, non cambia, né si alleggerisce il bagaglio di tensioni che si porta addosso.

Nel suo discorso del 3 settembre Xi Jinping ha annunciato una riduzione di 300.000 unità delle forze armate cinesi, ma questa decisione, assai più di una prova di volontà di pace o anche solo del tentativo di ridurre i costi di un pletorico esercito, appare semplicemente in linea con la necessità di modernizzare tattiche e sistemi di difesa. Non contraddice il riarmo cinese, trend consolidato negli anni malgrado il crescente ricorso a una “diplomazia monetaria”, cui peraltro i problemi sul fronte economico rischiano ora di togliere smalto. Tanto meno contraddice la generale corsa al riarmo nella regione che, in un effetto domino, coinvolge in primo luogo il Giappone (dove già si annunciano nuovi aumenti del budget della difesa per il prossimo anno finanziario). Il che non significa che Pechino e Tokyo vadano inesorabilmente verso uno stato di tensione permanente, seguendo l’onda lunga dei rispettivi nazionalismi. Xi Jinping, nel suo discorso sulla Seconda guerra mondiale, ha evitato condanne dirette del Giappone, limitandosi a contestare l’assunto su cui si basa l’approccio di Abe al problema, ovvero che si debba guardare al futuro per non lasciare eredità di odio alle nuove generazioni. Lo stesso primo ministro giapponese d’altro canto, nell’ultimo discorso sull’argomento, quello del 14 agosto, aveva smorzato i toni del suo “revisionismo storico”, parlando di “rimorso” per la passata politica imperialistica giapponese e accettando di applicare ad essa il termine “aggressione”.

Gli Stati Uniti svolgono un ruolo decisivo in questo complicato gioco di azioni e reazioni. Sempre tenendo un punto fermo però: la centralità dell’alleanza con Tokyo. Obama lo ha ribadito il 3 settembre, in polemica diretta con la Cina: “Le relazioni tra Stati Uniti e Giappone negli ultimi 70 anni sono un modello del potere della riconciliazione. Settanta anni fa una simile partnership era inimmaginabile.  Ora riflette armoniosamente i nostri interessi, potenzialità e valori condivisi”.  È un assist lanciato ad Abe, alle prese con gli ultimi dibattiti parlamentari prima del voto definitivo sulle nuove leggi relative alla sicurezza, che snaturano di fatto l’impronta pacifista della Costituzione. Questo mutamento legislativo è fortemente voluto dagli Stati Uniti perché su di esso si fonda il ribilanciamento di responsabilità e competenze tra i due alleati, che serve a ridurre i costi della presenza militare americana nel Pacifico occidentale senza cedere il campo alla Cina. Alla maggioranza dei giapponesi le nuove leggi non piacciono, tanto che il capo del governo ha visto calare la sua popolarità nei sondaggi e sta cercando di recuperare terreno enfatizzando i meriti della Abenomics. Ma ormai il dado è tratto.  Lo indica ad esempio il varo, a fine agosto, della quarta portaelicotteri giapponese (la seconda di classe Izumo). È evidente che, come le portaerei di cui i cinesi si stanno dotando, non serve a impedire attacchi diretti ai propri confini, ma a dare sostanza alla proiezione di potenza.

Stando così le cose Xi Jinping, incontrando Obama, non potrà illudersi di allontanare gli Stati Uniti dal Giappone sventolando la bandiera di superiori interessi globali (dal clima alla finanza in subbuglio) da gestire in tandem tra le due maggiori potenze mondiali. L’avvicinarsi in America della scadenza elettorale del 2016 d’altra parte alimenta tra i candidati a caccia di voti la tentazione di facili consensi sparando a zero sulla Cina. Il presidente, pur non essendo in lizza per rielezione, non può non esserne in qualche modo condizionato. L’insistenza sulla difesa dei diritti umani esibita da Susan Rice, consigliere per la Sicurezza nazionale, durante la sua recente visita a Pechino lo conferma. Più in generale Obama, come sempre combattuto tra approfondimento della partnership e contenimento, deve ora sciogliere l’interrogativo se sia meglio trattare con una Cina forte o con una Cina un po’ più debole. Non gli sarà facile comunque rapportarsi con Xi Jinping muovendo da una posizione di forza. A parte la complessa questione dei bond americani in mano ai cinesi (che crea un ben noto fenomeno di stretta interdipendenza), deve ammettere che la strategia del Pivot to Asia continua a traballare. Non riesce a chiudere i negoziati per la creazione del TPP (Trans Pacific Partnership) e se non si trova una via di uscita si rischia un clamoroso fallimento, specie di fronte al successo riscosso dalla Cina col lancio, in primavera, della Banca Asiatica per le Infrastrutture e gli Investimenti (AIIB). In sostanza, se Atene piange Sparta non ride. Le difficoltà incontrate dal TPP mostrano che il libero mercato di marca americana è indigesto a molti dei paesi asiatici che le due grandi potenze si contendono, e difficilmente questo atteggiamento cambierà perché cala la crescita del PIL cinese o scoppia la bolla speculativa alla borsa di Shanghai.

Che poi la Cina fatichi a sua volta a presentarsi come paese-guida lo mostra il non entusiasmante raccolto di capi di stato e governo – una trentina – convenuti a Pechino per l’anniversario della fine della guerra. Tra questi c’era Vladimir Putin, che ha restituito a Xi Jinping il favore fattogli alle “sue” celebrazioni del maggio scorso, oscurate dalla questione ucraina. È una Russia che solo un anno fa aveva sperato di essere salvata da una crisi irreversibile proprio grazie a una partnership di ferro con la Cina e che ora rischia di subire i maggiori danni dalle difficoltà economiche cinesi senza avere a disposizione credibili “piani B”. A Pechino c’era poi mezza ASEAN, l’associazione del Sud-Est asiatico: particolarmente significativa la presenza a Piazza Tienanmen del presidente birmano Thein Sein e di quello vietnamita Truong Tan Sang, pur ampiamente corteggiati dagli americani e dai loro alleati. Ma il contrappeso rappresentato dall’assenza alle celebrazioni del peso massimo dell’ASEAN, l’Indonesia, oltre a Malesia, Singapore, Tailandia e Filippine, è un serio campanello d’allarme anche per la Cina.

Il maggior successo per Xi Jinping sembrerebbe essere stata la presenza della presidente sudcoreana Park Geun-hye, a conferma di quanto i rapporti tra Seul e Pechino siano a prova di crisi economiche e di rampogne americane. La scelta di Park impone a Washington di chiedersi fino a che punto i sentimenti antigiapponesi costituiscano un collante in grado di costituire un indebolimento della forza di attrazione americana. Ma la Corea del Sud continua a delegare in toto la sua sicurezza agli americani. Sia Park sia Xi Jinping devono prenderne atto. Per la prima, la via di uscita è un “doppio binario” così riassumibile: i nodi che impediscono rapporti cordiali con Tokyo non devono influire né sulle questioni economiche né su quelle relative alla sicurezza. Per Xi, la Corea del Sud appare un ponte per mantenere vivo il dialogo, almeno a livello economico, col Giappone. Da ciò è nata la proposta – ufficializzata dopo il bilaterale Park-Xi Jinping del 2 settembre – di tenere il 31 ottobre un vertice a tre a Seul tra Corea del Sud, Giappone e Cina per riannodare il dialogo in vista di reciproche concessioni commerciali dopo tre anni di totale stasi. Da Tokyo sono giunte risposte positive. E naturalmente se ne compiace soprattutto Washington, che era fortemente contrariata dagli attriti tra Seul e Tokyo e ora interpreta il vertice come l’occasione per il primo incontro diretto di riconciliazione tra Park e Abe.