Dopo quattro mesi di falsi ultimatum e di veri scontri, la trattativa tra la Grecia e i propri creditori è giunta al redde rationem. Dall’arrivo di SYRIZA (un partito nuovo con leader nuovi) al potere, nel gennaio scorso, il programma di bailout dei creditori ufficiali è stato sospeso; aiuti per 7,2 miliardi sono stati congelati in attesa che il nuovo governo condotto da Alexis Tsipras sottoscrivesse il memorandum di intesa che il suo predecessore Samaras aveva siglato con la Troika.
In gennaio le distanze tra le parti sembravano incolmabili. Da un lato SYRIZA aveva tra i capisaldi del suo programma elettorale il ribaltamento dell’austerità, l’annullamento delle misure più controverse imposte ai propri predecessori, e il rifiuto di firmare qualunque memorandum di intesa che assomigliasse ai programmi di riforme strutturali che si sono succeduti dal 2010 in poi. Dall’altro, la Troika e l’Eurogruppo escludevano qualunque ritocco al memorandum di intesa e subordinavano il proseguimento del programma di aiuti ad una sostanziale retromarcia di Tsipras rispetto alle proprie promesse elettorali.
Da allora molta acqua e pochi soldi sono passati sotto i ponti. Tsipras e il suo vulcanico Ministro dell’Economia Varoufakis hanno dovuto fare i conti con la realtà di un bilancio pubblico al collasso, e hanno rinunciato ai punti più estremi del programma di SYRIZA, mentre i creditori hanno accettato di riaprire i negoziati sul memorandum. Nel frattempo la Grecia è riuscita a far fronte ai primi pagamenti ai propri creditori raschiando il fondo del barile, ad esempio confiscando fondi alle collettività locali, o ricorrendo a contabilità creativa (l’ultimo pagamento al Fondo Monetario, di 750 milioni, è stato effettuato ricorrendo a liquidità di emergenza disponibile presso… il Fondo Monetario).
Ma queste soluzioni tampone non potevano durare, e la Grecia arriva alle prossime scadenze con le casse vuote. Tra il 5 e il 19 di giugno il governo deve rimborsare 1,6 miliardi al Fondo Monetario, e non potrà farlo senza che i fondi del bailout siano sbloccati, vale a dire senza che un accordo su un nuovo piano di salvataggio sia raggiunto. I ministri più importanti, a cominciare da Varoufakis, hanno più volte detto che salari pubblici e pensioni verrebbero pagate prima di rimborsare i debiti a scadenza nelle prossime settimane. È inoltre improbabile che si ricorra all’ennesima soluzione ponte, più o meno creativa, che né la Grecia né i suoi creditori vogliono (improbabile ma non impossibile; negli ultimi anni le autorità europee sembrano essersi specializzate nell’arte di guadagnare tempo decidendo senza decidere). A metà giugno quindi, o si avrà un accordo, o si avrà un default della Grecia, che a sua volta renderebbe più probabile un ritorno alla dracma.
Ma cosa manca per raggiungere un accordo? Moltissimo o pochissimo, a seconda della prospettiva. Come dicevamo, i due pilastri del programma di SYRIZA sono l’abbandono dell’austerità e il rifiuto delle riforme strutturali. Fin da gennaio la discussione si è concentrata su queste ultime, con fantomatici documenti contenenti liste di cui non siamo mai venuti a conoscenza, e complesse trattative che sembravano passare dall’ottimismo al pessimismo nello spazio di un mattino. Ma in realtà, sembra di capire, SYRIZA ha fatto retromarcia su molte delle promesse elettorali, e accettato una gran parte delle richieste dei creditori, in particolare quella di continuare con la maggior parte delle privatizzazioni su cui si era impegnato il governo del suo predecessore Samaras. Certo, ci sono ancora alcune “linee rosse” invalicabili, come il disaccordo su ulteriori riforme del sistema pensionistico (su cui la Grecia ha già fatto moltissimo) e del mercato del lavoro, o ancora il rifiuto del governo di aumentare l’IVA nelle isole più turistiche. Ma è difficile immaginare che la Grecia possa essere spinta fuori dall’euro per questo. Non sarebbe sorprendente quindi, se da parte dell’Eurogruppo ci fossero concessioni importanti su questi temi, e se quindi si trovasse un accordo.
Il vero punto di divergenza è oggi il primo, vale a dire la dimensione del piano di austerità che la Grecia dovrebbe continuare a mettere in atto per accedere a nuovi finanziamenti. Fin dal 2010 i differenti governi greci hanno messo in atto misure draconiane per ridurre il deficit e il debito pubblici. SYRIZA ha sempre denunciato queste misure, non solo perché imponevano una sofferenza eccessiva alla popolazione greca; ma anche e soprattutto perché, i fatti lo hanno dimostrato, hanno peggiorato invece di migliorare lo stato delle finanze pubbliche in Grecia (e non solo). È ormai cosa nota, soprattutto dopo l’ampiamente discusso mea culpa del Fondo Monetario sulla dimensione dei moltiplicatori, che l’austerità in tempi di crisi ha un effetto recessivo il quale, riducendo il PIL in modo brutale, può condurre ad un aumento, e non alla diminuzione desiderata, del rapporto tra debito e PIL.
Proprio in virtù di questa ammissione, tanto più significativa perché viene da una delle tre “gambe” della Troika, risulta incomprensibile l’insistenza sulla necessità per il governo greco di continuare ad avere surplus primari (cioè al netto del pagamento degli interessi sul debito).
Ovviamente, si potrebbe dubitare della fonte: Varoufakis è stato accusato da molti di essere una sorta di dilettante con scarsa esperienza, e per di più parte in causa. Ma il punto è che effettivamente la Grecia ha fatto i compiti a casa, come mostra il quadro compilato a partire dal database macroeconomico della Commissione:
Dalla figura si può vedere come la Grecia abbia migliorato di quasi 20 punti il proprio saldo strutturale (passando da un deficit ad un surplus, al netto degli interessi, che le consente di guardare ad un eventuale default con un po’ più di serenità), e soprattutto come questo sia avvenuto principalmente attraverso una riduzione importante della spesa. Il programma della Troika è stato applicato meglio rispetto alla media dell’Eurozona. Anzi, anche meglio di quanto non abbia fatto l’alunno modello, la Spagna (in cui peraltro, nonostante una soddisfacente performance economica recente, il recente voto a Podemos mostra un’insofferenza all’austerità simile a quella che ha portato al potere SYRIZA).
Il problema è che nessun Paese ha mai potuto sostenere avanzi primari importanti e prolungati come quelli che dal 2010 vengono chiesti alla Grecia, senza che questi portassero ad una crisi peggiore di quella che si voleva curare. E anche assumendo che alla fine Tsipras ceda, un nuovo programma simile a quelli passati ritarderebbe la ripresa economica, e farebbe riemergere gli stessi problemi tra uno, due o cinque anni. Sempre che nel frattempo le sempre più forti spinte centrifughe, in Grecia o altrove non abbiano portato alla fine dell’Eurozona.
Questo vuol dire che occorre augurarsi una Grexit? Certamente no. Sono troppe le incognite legate ad un default disordinato, con o senza “valute parallele”. Nel breve periodo la crisi greca si farebbe ancora più acuta, e nonostante la fiducia delle istituzioni europee, la capacità di tenuta delle altre economie in difficoltà (inclusa l’Italia) sarebbe tutta da dimostrare. In una prospettiva più lunga sono troppe le variabili da considerare per poter fare previsioni sensate. Certo è che se per la Grecia l’uscita si rivelasse una strategia vincente nel medio termine, la tentazione di altri Paesi di seguirne le traccie sarebbe difficile da arginare, e questo significherebbe la fine della moneta unica.
La soluzione al pasticciaccio greco non può che essere fondata su due pilastri fondamentali. Il primo è una ristrutturazione del debito (come chiesto a gran voce dal FMI), che si accompagni all’impegno di attuare le riforme che lo stesso governo greco afferma di voler mettere in atto (e come dimostrano le stesse valutazioni più recenti del Fondo, il riflesso di andare a toccare sempre il mercato del lavoro non è necessariamente il migliore). Per la Grecia, la sostenibilità nel medio periodo passa per un debito più sostenibile, accompagnato da un miglior funzionamento dello Stato, e da finanze pubbliche moderatamente in attivo. Ogni altra soluzione è semplicemente velleitaria.
Ma una volta messa in sicurezza la Grecia, l’Europa si dovrebbe interrogare sulla follia di cinque anni di austerità, e su una governance macroeconomica disegnata per escludere qualunque assorbimento di shock asimmetrici, e per impedire politiche attive da parte dei governi e della Banca Centrale.