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Giappone: più armi per le nuove responsabilità

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Il nuovo impulso dato all’alleanza con gli Stati Uniti, la lunga serie di cambiamenti normativi (alcuni già attuati, altri attesi prima dell’estate), il costante aumento delle spese militari: sono tre aspetti di un’unica linea di tendenza su cui va modellandosi il Giappone che con Abe Shinzo ridisegna il quadro strategico del settore Asia-Pacifico. I dati quantitativi sul bilancio della difesa sono l’aspetto più semplicemente oggettivo: un significativo aumento del 2% per il terzo anno consecutivo dopo 11 anni caratterizzati – fino al 2012 – da una continua riduzione della spesa militare.

Si tratta di una scelta politica complessa, i cui aspetti ideologici – collegati ad un revival nazionalistico – sono un fattore appariscente, ma non primario. Più cogenti sono le pressioni del principale alleato e le considerazioni di ordine economico. Le prime, connesse alla strategia obamiana del Pivot to Asia, muovono dal presupposto che il Giappone per garantire la propria sicurezza deve fare molto di più di quanto abbia fatto finora. Soprattutto è chiamato a contribuire attivamente al mantenimento della stabilità regionale, anche a costo di porre fine alle limitazioni nell’uso della forza militare che ne hanno caratterizzato fino a oggi il ruolo internazionale.

Il secondo tipo di considerazioni – quelle economico/finanziarie – spinge a vedere in un consistente aumento della produzione bellica un indispensabile sostegno alla cosiddetta Abenomics, rinviando a tempi migliori la riduzione del debito pubblico. L’obiettivo, attraverso sia complesse triangolazioni internazionali sia incentivi all’industria nazionale, è rilanciare vari settori ad alta tecnologia che rischiano di essere schiacciati dalla concorrenza estera e conquistare, anche per la voce armamenti, mercati esteri.

Un momento di svolta in tale contesto appaiono le nuove linee guida per la cooperazione militare concordate il 27 aprile tra Stati Uniti e Giappone. Queste, come ha commentato il Segretario alla Difesa americano Ash Carter, “trasformano l’alleanza tra i due Paesi”. Dallo stretto bilateralismo si passa infatti a una divisione dei compiti su scala globale che tocca temi in passato impensabili. Soprattutto viene rovesciato il senso di fondo dell’alleanza: non serve solo a proteggere il Giappone grazie all’ombrello americano, ma anche a proteggere gli americani e a preservare la stabilità regionale grazie alla collaborazione del Giappone. “Oggi – ha detto il Segretario di Stato John Kerry il 27 aprile –viene sancita la capacità del Giappone di difendere non solo il suo territorio, ma anche gli Stati Uniti e altri partner in caso di necessità”.

È per questo che rispetto alle precedenti linee guida (risalenti al 1997), si eliminano le restrizioni geografiche. Non si parla più di SIASJ (situations in areas surrounding Japan) e si autorizza l’intervento delle SDF (le cosiddette “Forze di autodifesa”) in “tutte le situazioni che possano avere grande influenza sulla pace e la sicurezza del Giappone”. Quindi si inseriscono, nelle circostanze che giustificano interventi militari giapponesi, anche i casi di “minacce emergenti alla sicurezza del Giappone” e “attacchi armati contro un Paese che non sia il Giappone”. Punto, quest’ultimo, particolarmente innovativo, poiché trasforma il Giappone in un security provider e dà concretezza al concetto, caro ad Abe, di proactive contribution to peace.

Quanto all’espansione funzionale delle aree di cooperazione, il nuovo documento ne incorpora parecchie: la difesa contro missili balistici (il Giappone abbatterebbe missili lanciati dalla Corea del Nord contro obiettivi statunitensi); operazioni di intelligence e sorveglianza (tra le idee di Abe c’è anche quella di creare una sorta di CIA giapponese); sicurezza marittima (per esempio lo sminamento anche quando è in corso un conflitto e non solo in situazioni di pace com’era previsto dalle precedenti linee guida); operazioni marittime antiterrorismo e di ispezione in caso di blocco navale (che si sommano a quelle ben rodate contro la pirateria); cyber-attacchi e soprattutto “guerre spaziali”. L’obiettivo in quest’ultimo caso è creare un sistema di comunicazioni satellitari integrato con quello americano, in modo da ovviare alla vulnerabilità degli Stati Uniti in questo campo, peraltro uno di quelli in cui interessi commerciali e strategici meglio si compenetrano (la “politica spaziale” appena varata da Tokyo prevede investimenti per 40 miliardi di dollari in dieci anni e il lancio di almeno 45 satelliti artificiali).

Inevitabile che per il Giappone aumentino le spese militari, ben al di là della ridistribuzione degli oneri finanziari connessi alla costruzione di nuove – e contestate – basi militari a Okinawa per le forze americane. Il bilancio per l’anno finanziario in corso destina alla difesa 41,8 miliardi di dollari su un totale di 801 miliardi (cioè circa il 5,2% della spesa totale, pari a circa l’1,1% del PIL). Lo scopo, in simbiosi con Washington, è fornire al Paese una effettiva capacità di deterrenza, anche in relazione alla difesa di isole rivendicate da nazioni ostili, e contribuire alla stabilità regionale, con riferimento soprattutto al Mar Cinese Meridionale. È previsto l’acquisto di hardware militare americano e di armamenti prodotti in Giappone, tra gli altri sei caccia F35A (148 milioni l’uno), cinque Boeing V-22 Osprey a decollo verticale (68 milioni l’uno), 20 aerei di sorveglianza Kawasaki P-1, tre droni Global Hawk, 30 mezzi anfibi AAV7, e infine sistemi Aegis per due cacciatorpediniere.

La cornice normativa in cui il trend si manifesta discende dalla nuova “interpretazione” della Costituzione del 1947, data dal governo nel luglio scorso. Per questa via è stato affermato il “diritto all’autodifesa collettiva” e ora è in corso la modifica delle principali leggi che, nell’ultimo mezzo secolo, hanno regolato il dispositivo militare nipponico racchiudendolo entro i limiti del “rifiuto della guerra come strumento per risolvere le controversie”.  Una novità già maturata nel 2014 è la fine del bando all’esportazione di “materiale e tecnologia per la difesa”. La decisione è stata accompagnata dalla precisazione di tre principi, che dovrebbero limitarne l’impatto ma che per la loro genericità non raggiungono lo scopo: la vendita deve essere un contributo alla sicurezza del Giappone, deve inquadrarsi nell’impegno a favorire la pace e la cooperazione internazionale, deve essere soggetta ad appropriati controlli.

Superare il bando all’export di armi è un passaggio considerato essenziale non solo per i diretti profitti che ne possono derivare. Soprattutto apre la strada a joint ventures ad altissimo contenuto tecnologico con Stati Uniti e altri partner. Si guarda con particolare attenzione ai mercati del Golfo (da battistrada ha fatto la vendita al Qatar di missili americani Pac-2 con sensori nipponici).  Ma si punta molto anche sulla nuova India di Narendra Modi e sull’Australia. L’India è il maggiore importatore mondiale di armi e, malgrado si sforzi di aumentare la produzione domestica su licenza e speri di rimpiazzare gli obsoleti Mig21 con gli autarchici caccia Tejas, si appresta a spendere nel prossimo decennio dai 120 ai 130 miliardi di dollari in armi. L’Australia, che il Giappone considera un “quasi alleato”, intende rinnovare la sua flotta e per questo è interessata ai sottomarini di produzione giapponese della classe Soryu. Entro l’anno potrebbero concretarsi contratti miliardari col Giappone.

Circa i cambiamenti legislativi legati al principio dell’autodifesa collettiva, nelle ultime settimane è stato raggiunto un accordo di massima tra il partito di Abe e il Komeito, junior partner di governo di ispirazione buddhista, per cui tutti gli impegni presi con gli Stati Uniti si tradurranno rapidamente in realtà. Viene poi allargata la possibilità di partecipare a operazioni di peacekeeping: non servirà più il sì dell’ONU per l’assistenza umanitaria o per il supporto logistico. Si vuole dare inoltre più voce in capitolo ai militari: in discussione è l’abolizione del meccanismo (Art.12 della legge istitutiva del Ministero della Difesa) in base al quale le SDF sono sempre state sotto il controllo dei civili. In più, grazie alle innovazioni introdotte in febbraio nella “Carta per la cooperazione e lo sviluppo” diventa lecito destinare fondi inseriti nella voce aiuti anche a forze armate straniere, purché il materiale non sia usato in combattimento. L’unico compromesso che Abe pare sia stato costretto ad accettare è che gli interventi delle SDF dovranno essere preventivamente approvati, di volta in volta, dal Parlamento; il governo cioè non potrà avere carta bianca. Quanto al definitivo abbandono dei principi pacifisti imposti dall’Art. 9 della Costituzione, si procede con cautela ma con lo sguardo fisso sull’obiettivo: ai primi di maggio il responsabile per la revisione costituzionale del partito di Abe, Funada Hajime, ha annunciato una road map per realizzare i primi cambiamenti entro il 2017. Sono emendamenti minori, ma spianano la strada a quello sul pacifismo.