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La presenza frammentaria dello Stato Islamico in Afghanistan e Pakistan

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Esiste un pericolo Daesh (il nome arabo dello “Stato Islamico”) in Afghanistan e Pakistan? A sentire il Presidente afgano Ashraf Ghani, non solo esiste ma sottovalutarlo sarebbe molto rischioso. Quanto al Pakistan, il Ministero degli Esteri di Islamabad il 25 febbraio scorso ne ha ammesso l’esistenza, ma solo 20 giorni dopo, a metà marzo, il responsabile degli Interni sosteneva che non c’è traccia di Stato Islamico nel Paese dei puri.

Sembra innegabile in realtà che il movimento eserciti un fascino sui talebani pachistani (secondo un rapporto del governo provinciale del Belucistan dell’ottobre 2014 il Califfato aveva tentato il reclutamento di 3.000 guerriglieri); da parte loro, i cugini afgani, nemici giurati del Califfato per questioni ideologiche, teologiche, strategiche e di concorrenza, ne hanno una pessima opinione ma non lo hanno mai censurato apertamente sino a tempi molto recenti. All’inizio di maggio –  in occasione di una riunione congiunta a Doha con inviati del governo afgano – i rappresentanti talebani hanno preso ufficialmente le distanze da Daesh.

La riunione, è degna di nota: organizzata da Pugwash (organismo non governativo canadese), ha visto la presenza di una delegazione da Kabul (tra cui tre donne), otto inviati della shura di Quetta, il Gran consiglio talebano che fa capo a Mullah Omar, e rappresentanti dell’Hezb-e-islami (dell’ex signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar).

L’incontro, che si è rivelato molto più di una semplice vetrina e che sembra aver posto per la prima volta le basi di un possibile negoziato inter-afgano, è stato ricco di novità e, indirettamente, Daesh ne è stato forse uno dei motori. I talebani afgani, assai più dei loro omologhi del Tehreek-e-Taleban Pakistan (TTP), sembrano molto preoccupati della possibile concorrenza di Daesh che, il 26 gennaio del 2015, ha lanciato con un video la sua campagna per la conquista del Khorasan, la regione orientale dell’altipiano iranico. Con qualche sgarbo alla geografia, Daesh allarga questa regione sino al Pakistan, rivendicandone il possesso territoriale al neo Califfato di Al-Bagdadi. È proprio la rivendicazione territoriale a preoccupare i talebani di Quetta (per distinguerli da altre fazioni minori) e forse anche i guerriglieri dell’Hezb-e islami: entrambi i gruppi temono forse che le conquiste territoriali di Daesh in Iraq e Siria possano esercitare un’attrazione su quanti imputano a Mullah Omar (oltreché un’assenza pubblica prolungata e che desta sospetti) l’incapacità di assoggettare almeno parte del territorio afgano.

Vi è poi un aspetto ulteriore a marcare le differenze:, come nella diatriba già in essere con Al-Qaeda, i talebani e la guerriglia dell’Hezb partono da presupposti teologici e ideologici diversi. Per entrambi wahabiti e salafiti sono estranei alla tradizione locale e, sul piano della lotta armata, la loro forte componente nazionalista non è interessata a nessun tipo di jihad globale.

Non di meno, una condanna ufficiale ferma e rigorosa era finora mancata (almeno sul sito ufficiale dei talebani), seppur vi fossero state prese di distanza dalle azioni attribuite o rivendicate da Daesh e sia circolato un documento interno che definisce i suoi sodali “non mujaheddin”. A Doha, invece, il concetto di “estraneità” al contesto locale – un elemento dirimente nella logica afgana – viene attribuito a Daesh senza se e senza ma. Sia dalla guerriglia in turbante, sia dai rappresentanti del governo afgano.

È particolarmente importante la svolta per i talebani: contrari al wahabismo e soprattutto al taqfirismo (corrente settaria per cui è prioritaria la lotta al musulmano che devia dalla retta via) i talebani sono in questo momento occupati a mostrare il volto opposto, cioè un islam che si rifà alla tradizione classica (la scuola deobandi) e che supera il discrimine etnico tribale. Qualsiasi possibile nuova formazione – che intenda mettere il cappello sulla lotta nazionale dei guerrieri della fede – è solo un intralcio in un momento difficile politicamente (calo del consenso) e militarmente (le discrete performance dell’esercito nazionale afgano). 

Quanto al governo, esso sembra agitare lo spettro di Daesh forse più per un problema di moneta (il disinteresse internazionale unito al ritiro delle truppe della NATO significa la perdita di un consistente flusso di denaro) che per la percezione di un pericolo reale. La valutazione di un pericolo serio è diffusa soprattutto da chi paventa dietro Daesh l’ennesima mossa dell’ISI (i servizi segreti pachistani).

In effetti, la domanda è legittima: di che pericolo, quantitativamente, stiamo parlando? Una ricostruzione meticolosa del fenomeno si deve a Borhan Osman, ricercatore di Afghanistan Analysts Network, secondo il quale “…nonostante avvistamenti più o meno reali ed esagerazioni, esiste una sorta di presenza Daesh in Afghanistan, anche se avremo bisogno di vedere se dura dopo l’uccisione di Khadem” (l’“Emiro” Abdul Rauf Khadem, ex-detenuto di Guantanamo e  mullah, ucciso il 9 febbraio 2015). Khadem (sostituito da Hafiz Wahidi, anche lui però già ucciso in battaglia a metà marzo) avrebbe contato comunque solo su una forza combattente nell’ordine delle centinaia di individui, anche se sulle cifre è facile sbagliarsi.

In sintesi, esiste in Afghanistan un’attrazione innegabile in parte di  tipo ideologico ma soprattutto pragmatica: gli affiliati a Daesh sono talebani espulsi per motivi ideologici ma soprattutto per aver agito senza rispettare le direttive del vertice, o personaggi  a qualche titolo legati al Tehreek-e-Taleban Pakistan o con basi in Pakistan e capacità operativa seppur limitata in Afghanistan. Di solito figure di secondo piano, dissenzienti dalla linea o espulsi dal Pakistan. O ancora, personaggi che intendono controllare il fiorente traffico di oppiacei, zona grigia tra criminalità e guerriglia.

Il caso pachistano è differente. Due video risalenti a gennaio mostrano, tra l’altro, alcuni comandanti di medio livello del TTP che giurano fedeltà al Califfato (la loro guida è Hafiz Saeed Khan che però è stato nel frattempo ucciso). Tra costoro c’è anche Shahidullah Shahid (assieme ad altri comandanti delle aree tribali) che ha lasciato l’ombrello jihadista del TTP. Un ulteriore gruppo settario anti sciita, Jundullah, si è associato all’ISIS: loro la rivendicazione dell’attentato a Karachi del 13 maggio 2015 dove hanno perso la vita oltre 40 ismaeliti. Il 1° aprile del 2015, secondo la stampa locale, anche la fazione del Movimento Islamico dell’Uzbekistan che risiede in Pakistan (IMU) giura fedeltà al Califfato e rinnega quella a Mullah Omar. Ma non è chiaro quanto  abbiano inciso sulla decisione gli effetti di Zarb-e-Azb che espelle dal Pakistan un’enorme quantità di islamisti che vi avevano trovato rifugio.

Daesh si è insomma inserito nella frammentazione del TTP, e ha innescato una guerra aperta con Al-Qaeda. Ma questa guerra interna ai gruppi islamisti al momento sembra favorire soprattutto i loro nemici e le istanze più flessibili dei talebani afgani.