Sembra passato un secolo da quando Marine Le Pen salì al vertice del Front National. Una forza di estrema destra che aveva vissuto alcuni momenti d’oro, che si identificava quasi completamente con il patriarca fondatore, padre della nuova leader, Jean-Marie, e che sembrava condannata al declino. E invece, appena quattro anni sono bastati all’erede per posizionarsi in maniera determinante nell’arena politica della Francia, come mai era avvenuto in passato.
La “ri-fondazione” del Front National è una storia esemplare, tanto legata alle particolarità francesi quanto inserita in una tendenza comune a tutta Europa. La storia della crisi di un sistema politico stabile da 30 anni, della trasformazione della platea elettorale da distratta e distaccata a sfiduciata e rabbiosa, della percezione della fine di un equilibrio sociale. Marine Le Pen ha saputo comprendere e adattarsi a questa evoluzione, offrendo all’opinione pubblica un contenitore, un messaggio e un progetto di tipo nuovo.
Per quanto riguarda il contenitore, l’odierno Front National è una macchina al servizio della sua leader, da poco riconfermata alla presidenza con il 100% dei voti dei delegati al congresso di Lione. Ogni opposizione interna è stata resa irrilevante; negli organismi di dirigenza Marine Le Pen si è circondata di fedelissimi e di familiari – a cominciare da Louis Aliot, suo compagno, e dalla nipote venticinquenne Marion Maréchal-Le Pen.
La selezione del “cerchio magico” è rivelatrice della trasformazione del FN. L’ultimo congresso ha visto la definitiva conclusione della parabola di Bruno Gollnisch, storico collaboratore di Jean-Marie Le Pen – di cui fu anche direttore di campagna nel 2002, anno in cui il vecchio capo raggiunse il ballottaggio alle presidenziali. La sua visione, più legata alle radici del partito (cattolica tradizionalista, ferocemente anticomunista, affezionata a un nazionalismo basato sull’appartenenza di sangue) è stata messa in soffitta dall’ascesa di Florian Philippot.
Philippot, ex alto funzionario ed esperto di marketing poco più che trentenne, che “non sarebbe mai entrato nel Front National di Jean-Marie”, è oggi il consigliere più ascoltato e autentico sceneggiatore della figura pubblica di Marine Le Pen – tanto da essere anche nominato portavoce dell’alleanza messa su dalla leader, il Rassemblement Bleu Marine, cartello elettorale di partitini e candidati indipendenti nazional-conservatori egemonizzato dal Front National. Philippot è il fautore della svolta pragmatica che, con l’obiettivo di dédiaboliser (de-demonizzare) l’immagine del partito, ha ad esempio portato Marine Le Pen a non partecipare mai personalmente alle grandi manifestazioni contro il matrimonio gay e ad accettare l’ingresso nel partito di Sébastien Chenu, fondatore dell’associazione per i diritti degli omosessuali Gaylib e impegnato politicamente fino a quel momento nella destra moderata.
Tali scelte hanno fatto infuriare i membri più conservatori del Front, che prima di essere ridotti al silenzio sono arrivati ad accusare la leader di essere influenzata da una “lobby gay” il cui capo sarebbe proprio Philippot. Ma Marine Le Pen non ha sentito ragioni: ciò fa parte della sua ampia strategia di rimodulazione del messaggio elettorale. Il nocciolo di questa consiste nell’utilizzare comunque le ansie, le paure e le insoddisfazioni dei francesi, però non più per parlare a una nicchia, a una minoranza di loro – come era capacissimo di fare Jean-Marie Le Pen: ora l’obiettivo è rivolgersi alla maggioranza della popolazione. Cardine della svolta, una vera e propria mutazione lessicale nella comunicazione politica.
Nella narrazione della leader è finito allora lo scontro frontale con quelle categorie che costituivano un tempo una “minaccia per la patria”, come musulmani o immigrati. Queste categorie non vengono attaccate affatto in quanto tali: Marine Le Pen non manca anzi di esprimergli spesso una spiazzante solidarietà. Se un attacco c’è, questo arriva per vie traverse – benché forse ancor più efficaci: abbandonati le invocazioni alla collera divina contro i “laicisti” e lo slogan “Liberté, sécurité, équité”, caratteristici del tradizionalismo di Jean-Marie, Marine più sottilmente si serve proprio dei principi cardine dello Stato francese per toccare alcuni tasti “sensibili”.
La laicità diventa ora un valore irrinunciabile – ma nei discorsi della leader viene associata quasi esclusivamente all’esigenza di trasformare o limitare culturalmente la comunità musulmana. Lo stesso vale per l’égalité tanto disprezzata dal padre: Marine Le Pen la utilizza per sottolineare le storture della spesa pubblica, in quanto chi ne gode, ad esempio gli immigrati, sarebbe così “abusivamente” più uguale degli altri.
Chi vuole rappresentare, e incarnare, la Francia non può avere avversari nel popolo francese e deve inserirsi nel solco della sua storia: ecco dunque come vengono identificati i grandi “nemici pubblici” del Front National – in consonanza non solo con la convenienza politica ma anche con il sentire profondo di parte importante dell’opinione pubblica. Il primo è la casta dei partiti che ha mal ridotto la Francia. Il secondo è la globalizzazione, insieme al suo fiduciario di gran lunga più pericoloso: l’Unione Europea – entità che si merita i peggiori e più fantasiosi epiteti come “fabbrica di disoccupati e di immigrati”, “agente contro la famiglia”, “lunapark delle multinazionali”, “centro sperimentale del multiculturalismo”.
È dunque davvero nazionalista la natura del progetto di Marine Le Pen. Secondo questa visione la Francia, per tornare in piedi, dev’essere uno Stato forte, indipendente, nel pieno possesso di tutte le sue facoltà, capace di proteggersi, padrone di se stesso, una vera nation – come lo è la Russia di Vladimir Putin. È proprio dalla Russia, per inciso, che proviene la maggior parte dei finanziamenti di cui beneficia il partito.
Ma davvero i francesi condividono un tale punto di vista? Non maggioritariamente. In realtà, al di là della crisi (economica e politica) di cui soffre la Francia, e che ha amplificato e orientato un disagio sociale e una sensazione di declino e lontananza dalle istituzioni già ben presenti nel Paese, a giocare in maniera decisiva in favore del progetto lepenista è la sua organicità, e l’autorevolezza di cui la leader sta dando prova.
Il Front National parla dunque con una voce unica e offre nette e comprensibili ricette ai mali del Paese e alle sofferenze del presente – e ha il vantaggio di non condividere responsabilità di governo nemmeno a livello locale, dove il doppio turno lo tiene quasi sempre fuori dalle amministrazioni. Di fronte a questo avversario politico, il resto dei partiti si sta dimostrando clamorosamente inadeguato. Il Presidente François Hollande non è stato ancora capace di imprimere un’identità né una volontà forte al suo mandato, mentre il partito socialista è lacerato tra liberali, keynesiani, europeisti, statalisti, centristi, gauchisti – in attesa di capire se il prossimo annunciato disastro elettorale (alle dipartimentali di marzo) sarà almeno utile alla sinistra interna per liberarsi del Primo Ministro Manuel Valls. La sinistra radicale e i Verdi, altrettanto litigiosi, non offrono un panorama migliore.
Nel centrodestra, il ritorno di Nicolas Sarkozy alla testa dell’UMP, che si voleva trionfale, è stato invece all’insegna della contestazione interna: il partito, balcanizzato da un decennio di gestione personalista, non è per niente disposto a concedere in bianco all’ex Presidente la possibilità di candidarsi alle prossime presidenziali come campione dei moderati.
Rassembler (rimettere insieme, riunire) è da tempo il mantra della politica francese, l’obiettivo di ogni candidato, che regolarmente si scontra con una società mai come oggi scontenta e parcellizzata. La strategia di Marine Le Pen, se non ha (finora) potuto raggruppare una maggioranza elettorale attorno al Rassemblement Blue Marine, è però riuscita a coagulare attorno alla leader la più forte delle minoranze. Un ottimo punto di partenza in vista delle elezioni presidenziali del 2017.