Negli ultimi giorni di novembre un disegno di legge – detto “legge della nazione” – è stato approvato dal governo israeliano (15 voti contro 7), dividendo radicalmente la coalizione governativa fra destra e centro-sinistra. La proposta è stata formulata in diverse versioni da deputati del Likud e di Habayit Hayeudit (casa ebraica) e con un lungo pedigree alle spalle: nel 2009 un testo sullo stesso tema fu proposto da Avi Dichter, ex capo dello Shin Bet, il servizio di sicurezza e controspionaggio interno, e allora deputato del partito Kadima fondato da Ariel Sharon, Shimon Peres e Tzipi Livni. Il testo, riformulato dal Primo Ministro, ha lacerato l’eterogenea coalizione che governa il Paese da due anni e portato alle elezioni anticipate, fissate per il marzo prossimo. Il Parlamento lo discuterà quindi in futuro; il dibattito è rinviato anche per l’opposizione del Presidente Reuven Rivlin, del Procuratore dello Stato Yehuda Weinstein, e di molti giuristi.
Negli ultimi anni il radicalismo di destra è all’offensiva in Israele, anche nel Parlamento, con leggi volte a limitare la democrazia e l’indipendenza del sistema giudiziario. Si va dalle leggi contro il boicottaggio che consentono di agire in via giudiziaria contro coloro che in Israele propugnano il boicottaggio delle produzioni degli insediamenti, a quelle che limitano i finanziamenti a ONG da parte di governi esteri o istituzioni internazionali. Leggi che trovano alimento in larghi strati della società indifferenti o anche ostili allo stato di diritto e alla democrazia e in pulsioni verso il tribalismo, l’intolleranza.
Il quesito che viene sollevato oggi in modo non certo accademico ma nell’agone politico è di importanza cruciale: come assicurare che Israele resti lo “Stato degli Ebrei”, nel senso del sionismo liberale di T. Herzl o del sionismo socialista di Nachman Syrkin, Aaron David Gordon e David Ben Gurion. Quella visione diede compimento (prima con l’immigrazione e la fondazione dell’Yishuv – la collettività ebraica in Palestina – e poi nel 1948 con la costituzione dello Stato di Israele) al diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico, ma anche ad una democrazia piena per tutti i suoi cittadini. Alcuni ritengono perfino che quel tentativo sia un ossimoro, un’impossibilità.
In effetti, il dilemma è come conciliare tale diritto fondamentale del popolo ebraico con i diritti degli altri – arabi soprattutto (oggi circa il 20% della popolazione di Israele) e immigrati da altri Paesi del mondo. L’autodeterminazione è sancita dalla Dichiarazione di indipendenza del 1948 e anche dal piano di spartizione della Palestina approvato dalle Nazioni Unite nel 1947 che prefigurava uno Stato ebraico ed uno arabo. I non-ebrei soffrono di disparità e discriminazione nell’istruzione, nell’allocazione della terra per le abitazioni, nelle infrastrutture, nel mercato del lavoro.
Il dualismo fra “ebraico” e “democratico” esiste fin dall’inizio; basti pensare alla “Legge del ritorno”, in base alla quale chi abbia ascendenza ebraica ha diritto alla cittadinanza purché intenda vivere stabilmente in Israele. Che Israele sia uno Stato “ebraico”, non solo perché luogo di rifugio dalle persecuzioni e di riscatto di un popolo disperso e oppresso, ma perché l’identità collettiva del Paese è impregnata di cultura ebraica (la lingua, le feste, i simboli pubblici) è legittimo. Ma è cosa ben diversa che lo Stato favorisca il gruppo ebraico rispetto ad altre etnie cosa – per chi scrive – inaccettabile. La novità di oggi è che la legge codifica questa discriminazione. Qualora vi sia conflitto fra i due princìpi, l’ebraicità avrebbe precedenza sulla democrazia.
Si intende dunque porre l’ebraicità prima e al di sopra della democrazia e attribuire alla legge ebraica uno status privilegiato come ispirazione del sistema legale, declassando inoltre lo status dell’arabo da seconda lingua ufficiale del Paese. Questo comporta come conseguenza il fatto di limitare i diritti dei non ebrei ai soli diritti individuali, privandoli così dei diritti collettivi di una minoranza nazionale. Ciò significa disconoscere il fatto che vi è in Israele un’altra nazione o etnia; tale componente nulla potrà dire circa il carattere dello Stato di cui i suoi membri – gli arabi – sono stati finora cittadini con pari diritti. Affermare come nell’Art. 3 che Israele “sarà fondato sui principi di giustizia, libertà e pace alla luce della visione dei profeti di Israele e garantirà i diritti individuali di tutti i cittadini conformemente alla legge” significa qualcosa di diverso dal testo della Dichiarazione del 1948 che prescrive “…completa eguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso…”.
Ci sono due tesi divergenti fra coloro che si oppongono alla legge. Molti ne interpretano il contenuto e il timing come qualcosa di strumentale, nella battaglia politica per le primarie del Likud e in vista delle elezioni anticipate ormai annunciate, in cui i partiti di destra cercano di attrarre il voto dell’opinione pubblica nazionalista. Altri – come Gideon Levy, battagliero giornalista di Haaretz – sono assai più pessimisti: la legge sarebbe una prova che prepara il terreno per quando con l’annessione della Cisgiordania e la fine dell’illusione della soluzione “a due Stati” si giungerà anche formalmente ad uno Stato binazionale, non egualitario, non democratico, con diritti solo per ebrei.
Certamente, a mio avviso, è un passo verso l’instaurazione nel Paese di un sistema di democrazia “etnica”, in cui l’identità dello Stato è ebraica.
In un articolo del 27 novembre, ancora su Haaretz, Daniel Blatman, docente di storia dell’Olocausto all’Università Ebraica di Gerusalemme, assimila l’ideologia ispiratrice della legge a quella che portò nell’Europa degli anni Trenta, per esempio in Polonia e Romania, alle “leggi sulle nazionalità”. Quelle leggi furono approvate in Stati “che affermavano un’unica identità etnica, definita in contrasto con l’identità dell’altro fino alla discriminazione codificata e alla persecuzione delle minoranze. Gli ebrei furono le vittime prime di questi regimi, in cui xenofobia e sospetto sostituirono i principi del pluralismo politico e sociale”.