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Perché l’Europa ha bisogno di una strategia coerente sul TTIP

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Con le elezioni di midterm di novembre negli Stati Uniti e l’elezione del nuovo Parlamento Europeo nella primavera scorsa, si è aperto un biennio fondamentale per il futuro del Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti (TTIP). Come noto, l’obiettivo del TTIP è creare un’area economica integrata tra Stati Uniti e i vantaggi di questa operazione sono potenzialmente molto significativi, specialmente per l’Europa che ha un sistema produttivo fortemente orientato verso l’export. Nel 2013 l’UE ha registrato un surplus commerciale di oltre 106 miliardi di euro verso gli Stati Uniti. Secondo i dati dell’OCSE, l’export dell’Europa vale oltre il 45% del proprio PIL, contro il 13,5% del valore dell’export sul PIL statunitense.

Nonostante queste premesse, l’opposizione al TTIP è crescente sia fuori che dentro il parlamento di Bruxelles. Il movimento “Stop-TTIP” ha portato migliaia di persone in piazza l’11 ottobre scorso in oltre 21 Paesi dell’Unione per bloccare un accordo che, a suo dire, minaccia il modello sociale europeo e porterebbe ad un abbassamento degli standard di protezione dei consumatori per favorire le esigenze della produzione e distribuzione su larga scala. Un ulteriore punto fortemente osteggiato è la clausola di protezione degli investimenti (investor-state dispute settlement, ISDS) che permetterebbe ad una compagnia di portare uno Stato di fronte ad un arbitrato internazionale in caso di discriminazione da parte dalle autorità ospitanti. Il movimento Stop-TTIP teme che questo strumento possa essere utilizzato per limitare la libertà dei singoli Stati di legiferare su temi di pubblico interesse come educazione, sanità e risorse naturali.

Per rispondere a queste preoccupazioni la Commissione Europea ha lanciato un’operazione trasparenza senza precedenti. Il mandato negoziale della Commissione è stato de-secretato e sono state lanciate una serie di consultazioni pubbliche, con l’obiettivo di disinnescare almeno in parte il potenziale polemico che le trattative transatlantiche comportano. Secondo la Commissione l’obiettivo dell’accordo è abbattere i costi del commercio, non abbassare gli standard di qualità (cutting costs, not corners). Un alto livello di attenzione su temi resta, comunque, più che giustificato. Negoziati di questa portata e complessità tecnica sono da sempre a rischio di regulatory capture da parte di gruppi di interesse. È un esempio in tal senso il controverso accordo commerciale sulla protezione del copyright digitale (Anti-Counterfeiting Trade Agreement, ACTA) negoziato dalla Commissione e poi respinto dal Parlamento Europeo (e non ratificato in alcun Paese eccetto il Giappone) per l’eccessivo grado di invasività previsto dalle norme.

Purtroppo, tuttavia, il dibattito politico continentale si sta arenando in un’opposizione ideologica piuttosto che nella ricerca di soluzioni concrete che tutelino legittimi modelli sociali. L’inclusione dell’ISDS nell’accordo divide sia il Parlamento (con popolari del PPE e liberali di ELDR a favore, e i socialisti di S&D contro) che la stessa Commissione; al suo interno, il Presidente Jean-Claude Juncker si è detto contrario, mentre il Commissario al Commercio, Cecilia Malmström, resta favorevole.

Nel concreto, l’introduzione di un sistema di protezione degli investimenti pone difficoltà non insormontabili. Strumenti simili sono in vigore da oltre 50 anni in numerosi accordi bilaterali e tutelano le imprese straniere discriminate dalle autorità pubbliche, stabiliscono chiari strumenti di compensazione in caso di esproprio, garantendo un trattamento “giusto ed equo” e la libertà di rimpatrio dei capitali legati all’investimento. Si tratta di protezioni ben circoscrivibili, e comunque analoghe a quelle garantite dal mercato unico europeo. In passato, non tutti gli ISDS sono stati predisposti con sufficiente trasparenza e accountability. Un caso noto è quello dell’Australia, che è stata recentemente citata in giudizio da Philip Morris relativamente alla normativa sull’etichettatura del tabacco. Esistono tuttavia varie soluzioni giuridiche che permettono di garantire il giusto equilibro tra protezione degli investimenti e dell’interesse pubblico.

Al di là degli aspetti tecnici, pur rilevanti, si ha l’impressione che i due maggiori gruppi politici europei, PPE e S&D, si stiano nascondendo dietro l’ISDS per evitare una vera discussione su temi delicati sul tavolo, primo tra tutti la liberalizzazione della fornitura di servizi, su cui ci sono resistenze europee, del public procurement, e dell’energia – su cui invece le resistenze sono statunitensi. Manca a livello europeo un piano coerente sulla strategia negoziale da adottare e le priorità da raggiungere, e le possibilità di dibattito e confronto offerte dal Parlamento di Bruxelles rischiano di essere utilizzate soprattutto dal fronte dei partiti anti-europei o anti-establishment.

La partita in gioco va infatti ben oltre il TTIP. Gli europarlamentari Marine Le Pen, leader del Front National francese, e Matteo Salvini, leader della Lega Nord, hanno chiesto di essere nominati nella Commissione Parlamentare sul Commercio Internazionale per cavalcare personalmente l’opposizione al TTIP in chiave più ampiamente anti-integrazione. Tra la destra nazional-statalista e la sinistra anti-globalizzazione si sta cementando una vasta opposizione che tenta di delegittimare la politica commerciale comune europea.

In parallelo, nei prossimi mesi il Parlamento Europeo sarà chiamato a pronunciarsi sull’accordo commerciale tra Canada e UE (CETA). L’accordo è stato negoziato per oltre sette anni dalla Commissione e fornisce, tra gli altri vantaggi, protezioni significative per i Paesi europei esportatori di prodotti ad alta qualità, tra cui l’Italia. L’accordo è però osteggiato non soltanto dai partiti anti-europei, ma anche dal gruppo S&D, su pressione dei socialdemocratici tedeschi e austriaci che si dicono contrari all’inserimento di un ISDS nel trattato. Il comportamento di questi partiti, che governano nei rispettivi Paesi e hanno quindi già approvato l’accordo nelle proprie capitali – il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo ha già detto sì – mentre vi si oppongono a Bruxelles, evidenzia quanto inattesi e numerosi siano gli avversari della politica commerciale comune.

La Germania è l’unico Paese europeo che sarebbe probabilmente in grado di avere una politica commerciale propria, e di trattare da pari a pari con gli altri giganti economici del mondo (o quantomeno è ciò che si crede a Berlino): l’opposizione dei socialdemocratici austro-tedeschi sarebbe dunque né più né meno il tentativo di difendere l’interesse nazionale della Germania, liberandola dall’obbligo di difendere gli interessi degli altri partner comunitari. Un eventuale rifiuto da parte del Parlamento Europeo dell’accordo tra Canada e Unione Europea metterebbe infatti definitivamente a rischio la credibilità e il futuro della politica commerciale comune. 

I partiti e le istituzioni europee devono trovare un nuovo approccio che garantisca giusto equilibro tra trasparenza e visione strategica di lungo termine. Al netto delle differenze tra Europa e Stati Uniti, che esistono e dovranno essere tenute in considerazione, le negoziazioni potranno avere successo soltanto superando la logica dei “paletti” e delle red line, e concentrandosi piuttosto sugli obiettivi di fondo.