Pochi elementi come le infrastrutture dedicate al trasporto delle persone e delle merci costituiscono una carta d’identità tangibile, indicativa ed evidente della condizione economica – e della capacità di sviluppo – di uno stato o di un determinato territorio. Non è strano dunque che, nel corso della loro storia, i paesi europei si siano posti in reciproca competizione nella realizzazione di infrastrutture, privilegiando com’è ovvio gli interessi dei rispettivi centri economici, politici e demografici. Ed è altrettanto naturale che l’Unione Europea sia andata elaborando, per quanto le sue risorse e le sue attribuzioni glielo abbiano consentito, piani che superassero la concezione nazionale-centrica di tali servizi, progettando alternative di scala continentale invece che locale.
Si tratta, naturalmente, di due concezioni opposte, destinate a scontrarsi. Anzitutto per motivo più intuitivo, legato all’importanza della pianificazione e della realizzazione delle infrastrutture per i singoli governi nazionali. Queste opere si sono infatti rivelate fondamentali per la creazione e la gestione del consenso politico-elettorale, sia per le aspettative create nella cittadinanza, sia per il loro significato di modernizzazione e sviluppo, sia anche per la loro caratteristica di sussidio economico di fatto per aree svantaggiate – considerata la quantità di lavoro e denaro che si genera durante e dopo la loro costruzione.
D’altra parte, altrettanto importante è il ruolo delle infrastrutture come parte integrante del panorama simbolico comune degli abitanti di un paese, fino a diventare un fattore-chiave dell’immagine stessa del paese. Si pensi ad esempio all’Autostrada del Sole, che ha accompagnato l’Italia del boom nella sua uscita dalla povertà e nel suo ingresso nell’economia dei consumi; o all’estesissima rete autostradale tedesca, corrispondente alla potenza industriale, anche nel campo automobilistico, della Germania; o alla rete su ferro francese, prova dell’efficienza dell’intervento della mano pubblica transalpina; o all’alta velocità spagnola, capace negli ultimi anni di toccare tutti i capoluoghi di provincia, testimonianza di un paese in rapidissima modernizzazione.
Per contro, l’obiettivo fondamentale della progettazione europea è sempre stato quello di superare il grande limite di reti infrastrutturali tanto profondamente nazionali. Con tutte le difficoltà di collegare reti pensate, molto spesso, per essere utili all’interno dei confini dei singoli paesi, mentre l’economia del continente procedeva spedita verso un’integrazione che teneva ben poco in conto le vecchie frontiere.
I tre grandi piani elaborati negli ultimi vent’anni (1993-94, 2003-04, 2013-14), sono legati dunque da uno scopo preciso: quello di collegare tra di loro le strutture economiche e produttive di stati che non solo oggi sono per alcuni versi ancora in concorrenza tra loro, ma che in passato sono stati divisi da frontiere quasi invalicabili, come quelle della Cortina di ferro. Il più recente dei tre progetti, quello del 2013-14, è quello finanziato in misura più consistente, ossia con 26 miliardi per i prossimi sei anni.
Le infrastrutture europee sono tuttora gestite da una miriade di enti con regole, usi e interessi differenti: gli utenti di strade o ferrovie sanno bene di doversi adattare, nel giro di pochi chilometri, a modalità di utilizzo e pagamento completamente differenti – come quelle autostradali tra Italia, Austria e Germania, o quelle ferroviarie tra il quadruplo binario tedesco e il binario unico ceco, o lo scartamento diverso tra Francia e Spagna. I progetti di Bruxelles, ridotti infine da trenta a nove grandi assi di trasporto multimodali (Trans European Transport Networks, stradali, ferroviari, marittimi), più uno esclusivamente dedicato allo sfruttamento delle rotte marittime, sono dunque mirati a ridurre le inefficienze di collegamento tra i poli dell’economia e della logistica continentale – considerando il traffico di passeggeri servito in maniera abbastanza soddisfacente dalle rotte aeree.
Oltre che con la difficoltà di armonizzare sistemi diversi, la nuova “politica europea per le infrastrutture”, appositamente creata nel gennaio del 2014, deve fare i conti con un nuovo tipo di opposizione alle infrastrutture di trasporto, cresciuto negli ultimi due decenni soprattutto in Europa occidentale. Il sillogismo per il quale una nuova opera pubblica significava automaticamente un miglioramento delle condizioni per la cittadinanza, o un tangibile miglioramento delle prospettive di benessere, o un aiuto per un territorio in difficoltà, non è infatti considerato più valido da una parte consistente delle opinioni pubbliche di alcuni paesi.
La vasta scala delle opere previste, come può essere una ferrovia ad alta velocità che colleghi Lisbona a Strasburgo o lo stretto di Gibilterra a Kiev per facilitare il traffico merci, il collegamento tra i nodi di scambio e gli spostamenti tra le grandi città, offre oggettivamente pochi benefici diretti alle terre che concretamente attraverserà. Territori che dunque, già pesantemente antropizzati e percorsi da altre infrastrutture di portata minore e di minore efficienza, accettano con difficoltà l’idea di subire l’impronta (a volte perfino il trauma) che i cantieri e la stessa infrastruttura portano con se.
È un sentimento che si riscontra in maniera minore nell’Europa orientale e baltica, data la minore dotazione infrastrutturale preesistente. Qui, infatti, la costruzione delle reti di trasporto europee degli anni recenti corrisponde ai primi grandi interventi infrastrutturali che quei paesi vedono, e dunque corrisponde ancora a un’esigenza di progresso e modernizzazione che il resto d’Europa considera meno necessaria. Non è un caso che le più significative realizzazioni dei piani di Bruxelles siano già avvenute proprio in queste regioni del continente.
In altre aree, i progetti sono stati accompagnati da dure opposizioni (come nel tratto Tours-Bordeaux del corridoio atlantico), o da queste sono addirittura bloccate (come nel tratto Lione-Torino del corridoio mediterraneo), o ancora sono ferme al livello di progettazione. Come se non bastasse, la crisi economica ha reso di certo meno attraenti le cifre da capogiro necessarie al completamento delle opere, ma più evidenti che mai i vari casi di spreco e di mancata convenienza fin qui verificatisi.
I lavori in corrispondenza delle frontiere sono inoltre bloccati, in alcuni casi, dalla prudenza dei governi degli stati interessati, che appunto non possono ricavare dalle infrastrutture un vantaggio politico immediato da spendere presso le proprie opinioni pubbliche. Nelle capitali d’Europa si teme spesso che maggiori flussi di merci provenienti da altri paesi finiscano più che altro per danneggiare i produttori locali, favoriti finora dalle dimensioni nazionali dei mercati (proprio per la carenza di trasporti adeguati). Gli itinerari ideati da Bruxelles non sempre corrispondono infine ai piani che i singoli paesi hanno per lo sviluppo della propria rete di trasporti, con il risultato di innescare lunghe battaglie tra i ministeri e gli enti locali che vorrebbero accaparrarsi i benefici dei cantieri, com’è avvenuto in Spagna.
La Commissione Europea ha deciso di ristrutturare il proprio dipartimento dedicato alle infrastrutture e di conferirgli una dotazione di fondi significativa, convinta com’è che questi grandi lavori risolveranno alcuni difetti strutturali del mercato comune e porteranno benefici in termini di crescita economica.
Si è stabilito infine di nominare un coordinatore per ognuno degli assi di trasporto previsti, più uno che vegli sull’armonizzazione generale dei servizi offerti. Le persone scelte non provengono dagli stati che saranno attraversati da ognuna delle infrastrutture, e dovranno occuparsi proprio di risolvere i contrasti che i Trans European Transport Networks hanno finora suscitato. In un’Europa che in diversi ambiti si sente più disunita che mai, non sarà davvero facile sciogliere i tanti intricatissimi nodi con cui dovrà confrontarsi un’ambizione del genere.