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La lunga “transizione” delle nuove istituzioni europee: un primo bilancio

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Nell’Unione Europea la “transizione” da una legislatura all’altra è, se messa a confronto con la maggioranza delle democrazie nazionali, un processo ancora piuttosto farraginoso. Dal momento del voto popolare all’effettivo inizio del lavoro della nuova Commissione trascorrono molti mesi durante i quali si consumano numerosi passaggi, formali e informali. Non è facile per i comuni cittadini comprendere il senso di questa lunga procedura.

Il deficit democratico dell’UE, che anche gli osservatori più europeisti riconoscono esistere, comincia in larga misura da tale complessità, pressoché indecifrabile da parte dei non addetti ai lavori. Ad oggi, un giudizio complessivo sull’avvio di legislatura e sugli equilibri politico-istituzionali del nuovo ciclo 2014-2019 non è ancora possibile. Lo sarà soltanto dopo la presentazione dell’intera Commissione di Jean-Claude Juncker e l’esito del voto di approvazione (equivalente a una sorta di “fiducia”) da parte del Parlamento di Strasburgo (come prevede l’articolo 17 del Trattato UE), previsti necessariamente entro il I novembre.

Si può tentare, tuttavia, una prima analisi in corso d’opera alla luce dell’incarico all’ex primo ministro lussemburghese e delle decisioni assunte dal Consiglio Europeo del 30 agosto riguardo ad altri due dei cosiddetti tob jobs dell’Unione: l’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza e il presidente del Consiglio Europeo, ruoli affidati rispettivamente alla ministra degli Esteri italiana Federica Mogherini e al premier polacco Donald Tusk.

A dispetto delle attese, non ancora definito è il nuovo presidente dell’Eurogruppo. L’attuale numero uno tra i ministri dell’Economia della zona euro, l’olandese Jerome Dijsselbloem, prima di lasciare l’incarico all’aspirante sostituto, lo spagnolo Luis de Guindos, attende infatti di sapere se assumerà o meno un ruolo di primo piano nella Commissione.

Nelle relazioni fra le istituzioni comunitarie, l’elezione di Juncker ha senza dubbio rappresentato una vittoria dell’Europarlamento nei confronti dei governi nazionali. Si è imposta, infatti, l’interpretazione dell’ormai famoso incipit del comma 7 dell’articolo 7 TUE (“Tenuto conto delle elezioni del Parlamento Europeo”) più riconducibile alla visione federalistico-comunitaria e più lontana da quella intergovernativa: lo ha reso evidente, ex negativo, la reazione stizzita del premier britannico David Cameron e dell’ungherese Viktor Orbán.

È possibile affermare che il Consiglio Europeo sia stato in qualche misura “costretto” a tenere conto non solo dell’esito delle urne del 25 maggio, ma anche di una vera e propria volontà del Parlamento stesso, simbolicamente rappresentata dalla riunione informale dei capigruppo, pochi giorni dopo il voto, a sostegno della candidatura del veterano dirigente lussemburghese. Il meccanismo dei cosiddetti Spitzenkandidaten (candidati capolista) ha superato la prima decisiva prova, e il formarsi di una sorta di “grande coalizione” fra popolari e socialisti (con l’importante appendice dei liberali) ha seguito un corso piuttosto lineare e trasparente.

Siamo certamente ancora lontani da una vera democrazia parlamentare (come affermato invece con eccesso di entusiasmo da alcuni esponenti di rango, come il capogruppo socialista Gianni Pittella, nel dibattito d’investitura di Juncker), ma è indiscutibile che si sia compiuto un passo importante in quella direzione.

Le prime nomine seguire a quella di Juncker non sembrano invece inquadrabili in uno schema analogo, anche se, al contempo, non rappresentano necessariamente un segnale in direzione contraria. La scelta del presidente del Consiglio Europeo appartiene interamente all’ambito intergovernativo del Consiglio medesimo: è logico, pertanto, che attraverso tale atto cerchi anche di tutelare le prerogative che i Trattati gli assegnano.

L’elezione di Tusk, di cui peraltro sono noti gli orientamenti europeisti, non è tuttavia interpretabile come una “risposta” all’ipotetico affronto subito con la vittoria di Juncker nel braccio di ferro di giugno-luglio; appare, piuttosto, come l’espressione “normale” degli attuali rapporti di forza in seno al vertice dei capi di stato e governo, che continuano a vedere la cancelliera tedesca Angela Merkel, grande sponsor del polacco, in una posizione di relativo predominio.

Quella dell’Alto Rappresentante, poi, è una figura “ibrida”, a cavallo tra Commissione – di cui è vicepresidente; Consiglio Europeo – a cui partecipa e di cui è “mandatario”; e Consiglio “Affari esteri” – di cui è presidente. Essendo gli affari esteri e la sicurezza una materia appannaggio pressoché interamente delle istituzioni intergovernative dell’UE, anche in questo caso non è illogico che i leader degli stati vogliano continuare ad assicurarsi ampi margini di manovra, senza essere messi in ombra da figure considerate di grande peso specifico – e in questi termini è stata generalmente considerata dalla stampa internazionale la scelta dell’italiana. Una delle sfide di Mogherini sarà quella di riuscire a svolgere anche il ruolo di vice-presidente della Commissione – cosa su cui Ashton è stata particolarmente carente. Secondo alcune indiscrezioni, la ministra italiana vorrebbe effettivamente spostare l’asse del proprio lavoro in questo senso, ipotesi che permetterebbe maggiore coerenza fra gli strumenti dell’azione esterna. Vedremo se e quanto riuscirà a farlo.

Va aggiunto che Mogherini è stata esplicitamente candidata a quel ruolo dal Partito socialista europeo anche in virtù dei risultati elettorali (che hanno visto popolari e socialisti quasi alla pari), in una dialettica dai tratti molto più politico-federali che non propri dei rapporti diplomatici fra cancellerie: ragione per la quale la nomina del capo della Farnesina può risultare in coerenza con l’inizio di “parlamentarizzazione” delle relazioni in seno all’UE rappresentato dall’elezione di Juncker.

Le scelte dell’ultimo Consiglio Europeo, inoltre, sembrano definire un abbozzo di regola non scritta per la ripartizione degli incarichi comunitari di vertice. Al popolare Herman Van Rompuy, che all’epoca della nomina era primo ministro del Belgio, succede un altro popolare, anch’egli premier in carica del proprio Paese: la tendenza che emerge è che il ruolo di Presidente del Consiglio Europeo debba essere assegnato scegliendo fra un capo di governo appartenente alla famiglia politica maggioritaria in seno al Consiglio medesimo.

Per quanto riguarda la figura di Alto Rappresentante, si ripete l’incarico ad un’esponente socialista, e cioè a un membro dell’altra maggiore famiglia politica della “grande coalizione” che, ora come allora, regge le sorti dell’Unione: il numero due dell’esecutivo comunitario – sul modello tradizionalmente invalso in Germania, dove il vicecancelliere è stato quasi sempre il ministro degli Esteri – deve essere del secondo partito che fa parte di quella che un po’ approssimativamente può essere considerata la “maggioranza” politica dell’UE.

Al di là di queste considerazioni sugli equilibri istituzionali, va sottolineato il rilievo storico che ha, sul piano simbolico, l’ascesa di un polacco a uno dei posti di vertice dell’UE. Se l’elezione alla guida dell’Europarlamento di Jerzy Buzek, il predecessore di Martin Schulz, fu già un primo importante riconoscimento ai nuovi membri dell’ex Patto di Varsavia, la nomina di Tusk è la sanzione definitiva del fatto che l’UE (le cui sedi principali sono tutte in un perimetro “carolingio”) non è più solamente “occidentale”.

La Comunità europea delle origini rispettava scrupolosamente, nella ripartizione degli incarichi, l’alternanza fra stati grandi e piccoli: ammesso che questa antica prassi sia ritenuta ancora valida, è probabile che d’ora in poi non sarà più possibile prescindere dall’ulteriore regola non scritta che mira a garantire la visibilità dell’Est del vecchio continente. Una regola che sarà tanto più rispettata quanto più continuerà la lunga marcia della Russia verso il ritorno ad un atteggiamento di “grande potenza”.