Aumentano gli interrogativi circa le prospettive del Pivot to Asia del presidente Obama. Tra questi, è centrale quello sulla inevitabile evoluzione delle alleanze in un contesto caratterizzato da crescenti tensioni e da una sempre più evidente polarizzazione che presenta alcune analogie – insieme a molte differenze – coi tempi della guerra fredda.
Negli Stati Uniti i critici dell’amministrazione, che temono soprattutto il declino americano e accusano Obama di accelerarlo, propongono nuove formule di alleanza militare sempre con gli Stati Uniti nelle vesti di pilastro insostituibile. Si ipotizza una marcia di avvicinamento graduale che potrebbe partire – come ha consigliato in un articolo apparso sul Washington Times l’ex comandante della flotta americana del Pacifico, James Lyons – dall’organizzare ogni anno le esercitazioni “RIMPAC” (ora biennali) tra tutti i Paesi del Pacifico, escludendone però la Cina. Si dovrebbe puntare sulle operazioni di difesa delle zone costiere (chiaro riferimento alle scaramucce nelle zone di mare contese tra la Cina e i suoi vicini) e creare uno staff permanente ad hoc. Obama è per ora sordo a simili consigli. Ma, seppure con metodologie e in qualche modo anche finalità diverse, il Giappone è invece interessato a raccogliere la sfida. La politica estera del governo Abe sottintende infatti novità sostanziali circa il ruolo regionale del Giappone, e in tali novità ben si inserirebbe una strutturata alleanza militare multinazionale che prenda spunto dalla pur imperfetta simmetria tra Atlantico e Pacifico. Quella simmetria che si riscontra sul piano commerciale nella doppia formulazione della Trans Pacific Partnership e della Transatlantic Trade and Investment Partnership, e che può allargarsi anche a una dimensione militare.
Difficile, se non impossibile, pensare nell’immediato ad una forte leadership americana in vista della creazione di una simile alleanza, poiché questa inevitabilmente provocherebbe una irosa reazione dalle imprevedibili conseguenze da parte di Pechino e farebbe fallire tutti gli sforzi di Obama tesi a negare l’esistenza di una strategia di contenimento della influenza cinese. Ma ciò non significa che il cambiamento della struttura delle alleanze in Asia Orientale con un ruolo trainante di Tokyo non sia visto con favore anche dagli americani – una volta che il Giappone sia stato “sdoganato” come potenza regionale grazie ad un superamento dei vincoli imposti dalla sua Costituzione pacifista (a suo tempo imposta proprio da Washington). Anzi, secondo alcune analisi non si può escludere che la Cina, mal interpretando le esitazioni di Obama nel dare corpo al Pivot to Asia e adottando una politica muscolare verso i vicini, sia caduta in una sorta di trappola. La sua aggressività nel Mar Cinese orientale e nel Mar Cinese meridionale sta infatti cementando convergenze fino a ieri impensabili, con un Giappone pronto politicamente, economicamente e militarmente a sfruttarle fino in fondo grazie all’ondata nazionalistica che lo attraversa e a un ritorno di attivismo nella sua proiezione verso l’esterno. In particolare, a Tokyo si identifica l’area ASEAN e l’India come zone privilegiate per una cooperazione a 360 gradi. Inoltre, fondamentali nel fornire al Giappone gli strumenti per assumere il ruolo di potenza regionale sono le nuove norme che consentono una più libera esportazione di armamenti, di pari passo con la chiara volontà del primo ministro Abe Shinzo di reinterpretare la Costituzione in modo da esercitare il diritto di autodifesa collettiva. Il Giappone in sostanza si propone come vertice di una sorta di fascia di sicurezza che miri esplicitamente a contrapporsi alle “provocazioni“ cinesi (ultimo passo in questo senso l’accordo col Vietnam, da perfezionare entro la fine dell’anno, per la fornitura di due guardacoste annunciato dal vice ministro della difesa vietnamita Nguyen Chi Vinh il primo giugno, che segue analoghe intese con le Filippine). In questa fascia potrebbero entrare a vario titolo e con diverse motivazioni anche Taiwan – che sta accrescendo la cooperazione a tutti i livelli con Tokyo – e l’India, dove l’ascesa di Nerendra Modi, sorta di gemello politico di Abe alla luce degli orientamenti nazionalistici, ha spinto alcuni osservatori a prefigurare una specie di asse privilegiato New Delhi-Tokyo.
Gli Stati Uniti non hanno motivo di lagnarsi di questo ritrovato attivismo nipponico, visto che l’alleanza col Giappone appare più che mai salda. Per questa via infatti Washington potrebbe aggirare le contraddizioni finora irrisolte della strategia del Pivot to Asia, salvaguardando il dialogo con Pechino ai massimi livelli e semmai concentrando maggiore attenzione sul contenzioso (particolarmente aspro perché infarcito di elementi ideologici) tra Corea del Sud e Giappone. Proprio questo scontro persistente conferma che sussistono alcuni degli ostacoli che impedirono agli Stati Uniti di pensare dopo il secondo conflitto mondiale alla creazione in Asia Orientale di un’alleanza di sicurezza collettiva paragonabile alla NATO, e li indussero a preferire un sistema hub and spoke. Lo stesso si può dire per la maggiore libertà di manovra che gli accordi bilaterali di sicurezza lasciano al partner più forte, ovvero Washington. Inoltre, continua naturalmente a pesare la mancanza di contiguità geografica (che invece è stato un elemento essenziale in Europa).
Quanto alla volontà di dialogo con la Cina, essa prefigura, in teoria, perfino un’alternativa secca all’ipotesi di una alleanza sul modello della NATO – visto che i motivi di contrasto con Pechino sono ben diversi dalla contrapposizione con l’URSS durante la guerra fredda, anche se si considera il periodo della “distensione” degli anni Settanta. È però anche un serio motivo di preoccupazione per i Paesi della regione che si sentono minacciati dalla Cina, e che auspicano uno sbarramento fatto di deterrenza di fronte a quelle crisi locali (o conflitti a bassa intensità) contro cui l’ombrello nucleare americano è inefficace.
Possono non essere abbastanza rassicuranti allora i punti fermi della tattica americana fin qui seguita nel settore Asia Pacifico: ovvero mantenere ad alto livello le alleanze basilari, quelle con Giappone, Corea del Sud e Australia; proporsi come protettori/mediatori nei confronti dei Paesi più esposti alla “proiezione di potenza” della Cina; mantenere nel settore una presenza navale incommensurabilmente superiore a quella di qualsiasi potenza regionale (in nome del ruolo di unica potenza globale e di quella fetta della sicurezza nazionale che passa per la libertà di navigazione); chiedere agli amici che ne abbiano la possibilità una collaborazione più attiva a livello militare. La contromisura più logica, per chi non si sente abbastanza protetto, è il superamento dell’attuale stretto bilateralismo con gli Stati Uniti in campo militare, attraverso un incrocio di alleanze. Di recente si è fatto portavoce di questa idea Ishiba Shigeru, ex ministro della Difesa giapponese, ora segretario generale del Partito liberal democratico (di cui Abe è il presidente). Il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, secondo Ishiba, non può essere “unico”. “Dobbiamo chiederci se non convenga creare una rete di sicurezza con Paesi coi quali condividiamo valori come libertà, democrazia, libero mercato e rispetto dei diritti umano”, ha detto durante una conferenza a Washington, citando come i più attendibili partner Australia, Nuova Zelanda, Filippine a Malaysia. Solo in questa ottica, d’altra parte, ha senso il dibattito sul diritto all’autodifesa collettiva, che consentirebbe di correre in soccorso degli alleati sul modello della NATO.
Il Giappone ha sempre considerato la NATO un punto di riferimento importante, ma ora il rapporto con essa tende dunque a cambiare aspetto, e la visita di Abe dello scorso maggio al quartier generale dell’Alleanza, a Bruxelles, ne ha costituito una conferma. È stato firmato un nuovo accordo di partenariato che riguarda l’impegno comune contro la pirateria e gli interventi in caso di catastrofe naturale: questioni tutt’altro che marginali, dato che interferiscono con gli equilibri strategici nella maxi-area che dal Pacifico occidentale si riversa nell’Oceano Indiano. In più sono state annunciate manovre congiunte NATO-Giappone (nell’ambito della Operazione Scudo Oceanico). Ora che la fine della missione afghana e il fallout della crisi ucraina fanno pensare a un ripiegamento verso i vecchi schemi per l’Alleanza Atlantica, “nessuno in Giappone si aspetta che la NATO svolga un ruolo militare diretto in Estremo Oriente, ma ci si aspetta che gli alleati condividano percezioni e approcci”, ha detto alla Reuters Tsuruoka Michito, dell’Istituto nazionale per gli Studi sulla Difesa di Tokyo. Ad esempio, come Abe ha dichiarato a Bruxelles, si auspica una condivisione del timore per la mancanza di trasparenza delle crescenti spese militari cinesi e l’attenzione a evitare esportazioni in Cina di alta tecnologia a doppio uso civile/militare.