Che bilancio si può trarre della presidenza Obama in politica estera, cinque anni e tre mesi dopo il suo ingresso in carica? Che tipo di presidente è stato? Ha confermato o smentito le speranze riposte in lui, ingigantite dal quanto meno prematuro conferimento del Nobel per la pace nel 2009.
La risposta a tutte queste domande sta nel modo in cui si è comportato e si sta comportando nelle crisi scoppiate senza preavviso fino a oggi: le primavere arabe, e in particolare le crisi prolungate in Libia, Egitto, Siria, Iran e Corea del Nord – e infine Ucraina. Punti di tensione che si aggiungono alle due guerre ereditate dall’amministrazione Bush: Iraq e Afghanistan. Anche nella migliore delle ipotesi ci vorranno anni per valutare l’impatto definitivo delle scelte fatte da Obama, ma quello che possiamo constatare già da ora è il suo pragmatismo e la sua coerenza a fronte di situazioni molto diverse: Obama è stato un presidente realista, in molti casi cinico. È stato “europeo”, ma nel senso di Henry Kissinger, non delle folle che lo acclamavano a Berlino nell’estate 2008 prima ancora della sua elezione.
Come tutti i presidenti americani dal 1945 in poi, Obama ama parlare di diritti umani e tuona contro dittatori e terroristi. Ma la sua reticenza verso l’uso della forza militare su larga scala è palese. Ha sì ampliato fortemente l’uso di attacchi mirati dei droni in Pakistan e nello Yemen, anche accettando come “danno collaterale” l’uccisione di numerosi civili, ma ha mantenuto il calendario di ritiro dall’Afghanistan (dopo il breve periodo di aumento delle truppe chiesto dai generali, il cosiddetto surge) e coltivato i rapporti con i satrapi dell’Asia centrale o con l’infido governo pachistano per facilitare l’uscita americana da quella guerra. Le sue truppe hanno lasciato l’Iraq nel 2011 e, per il momento, Obama si è rifiutato di intervenire in Siria, tenendo conto della forte contrarietà dell’opinione pubblica, nonostante le pressioni del suo apparato per la sicurezza nazionale e dei mass media.
La sua amministrazione ha due donne di impostazione “wilsoniana” e interventista in posti chiave: Susan Rice, prima ambasciatrice all’ONU e oggi consigliere per la Sicurezza nazionale, e Samantha Power, che ha sostituito proprio la Rice alle Nazioni Unite nell’estate 2013. Tuttavia, il “cerchio magico” cui si affidava per le decisioni importanti nel primo mandato era composto dal predecessore della Rice, Thomas Donilon, dal suo vice Denis McDonough, e dal responsabile per l’antiterrorismo John Brennan; tutti e tre prudenti e realisti nella tradizione di funzionari come Brent Scowcroft, il consigliere di Bush padre che Obama ha più volte elogiato pubblicamente.
Già nel suo discorso di accettazione del premio Nobel, nel dicembre 2009, si trovavano le tracce di quale sarebbe stato l’atteggiamento pragmatico del presidente: “Io sono il comandante in capo delle forze armate di un paese impegnato in due guerre (…) Sono responsabile dello schieramento in battaglia di migliaia di giovani americani in terre lontane. Alcuni uccideranno, altri verranno uccisi”, disse Obama allora. Rendendo poi omaggio a chi aveva ricevuto il premio prima di lui (tra cui personaggi come Martin Luther King e Nelson Mandela) aggiunse, in maniera forse poco adatta all’occasione: “Dobbiamo cominciare con il riconoscere la dura verità: non riusciremo a sradicare i conflitti violenti nel corso delle nostre vite. Ci saranno momenti in cui le nazioni – agendo individualmente o in concerto – troveranno l’uso della forza non solo necessario ma anche giustificato moralmente”[1]. Nelle sue deliberazioni, l’Accademia delle Scienze della Norvegia aveva probabilmente trascurato di leggere il discorso tenuto dal neopresidente già il 12 marzo 2009 alla National Defense University: “Non illudetevi, questo Paese manterrà la nostra superiorità militare. Abbiamo le forze armate più forti nella storia del mondo”, un concetto ripetuto poche settimane dopo (22 maggio) rivolgendosi ai cadetti della US Naval Academy.
Al contrario di quanto ripetono ossessivamente i Repubblicani, quindi, Obama non è un pacifista: è piuttosto un leader politico deciso a mantenere la superiorità americana nel mondo, e il ruolo di unica superpotenza, anche a fronte di importanti vincoli sia a livello internazionale che interno[2]. Gli Stati Uniti continuano ad agire unilateralmente sulla scena internazionale, hanno preferito uccidere piuttosto che catturare e processare Osama bin Laden e non hanno ratificato il trattato istitutivo della Corte penale internazionale né la Convenzione sul diritto del mare. Nulla di nuovo nemmeno sul bando dei test nucleari. D’altra parte, i poteri del presidente non gli permettono di fare granché in materia di ratifiche: la Costituzione esige una maggioranza di due terzi in Senato, del tutto irraggiungibile nel clima politico attuale. Anche la promessa fatta ad Oslo di chiudere la base di Guantanamo non ha potuto essere mantenuta perché il Congresso lo ha impedito. Obama è però almeno riuscito a svuotare la prigione in territorio cubano del 30% dei suoi detenuti.
Per valutare l’approccio della presidenza numero 44 e 45 alla politica estera, è utile partire da una constatazione di John Mearsheimer dell’Università di Chicago: “L’élite della sicurezza nazionale americana agisce sulla base del presupposto che ogni angolo del pianeta sia di grande importanza strategica e che ci siano minacce agli interessi strategici degli Stati Uniti dappertutto. Non sorprende dunque che viva in uno stato di paura costante”[3]. È in questa atmosfera che Obama ha dovuto e deve agire, un ambiente che si surriscalda al punto dell’isteria di massa ad ogni nuova crisi, per esempio quella in Ucraina, che in queste ore sembra precipitare nella guerra civile. Ma al contrario della coppia Bush-Cheney, che si faceva vanto di non riconoscere limiti all’azione degli Stati Uniti, men che meno quelli posti dal diritto internazionale, Obama ha mantenuto un’eccezionale freddezza e capacità di giudizio. In cinque anni non si è mai lasciato trascinare dalle teste calde che dominano il National Security Establishment di Washington. Basti pensare alla determinazione con cui sta perseguendo un accordo diplomatico con l’Iran sulla questione del nucleare (accordo che la lobby israeliana negli Stati Uniti cerca sistematicamente di silurare) e alla decisione del settembre scorso di non dare seguito alle minacce di azione militare contro la Siria (anche per la diffidenza verso le fazioni jihadiste che oggi egemonizzano la ribellione).
Allo stesso tempo il suo comportamento è stato ben poco rispettoso delle Nazioni Unite. Nel caso della Libia, per esempio, il mandato dell’ONU (difendere i civili dalla repressione) è stato immediatamente trasformato in un “via libera” per rovesciare il regime – anche se il ruolo limitato assegnato alle forze armate americane indicava in effetti agli europei lo scetticismo di Obama verso l’intervento, cui mancava un progetto credibile di nation building.
Realismo naturalmente non significa né saggezza, né progresso per i popoli che guardano agli Stati Uniti con speranza: si pensi al Bahrein, dove nel marzo 2011 la pacifica rivolta di massa contro la famiglia reale è stata stroncata nel sangue con l’aiuto dell’Arabia Saudita. Nel caso dell’Egitto, gli Stati Uniti furono colti di sorpresa dalla rivolta di piazza Tahrir del febbraio 2011, e l’allora segretario di Stato Hillary Clinton sostenne per settimane una soluzione politica tutta interna all’apparato militare che aveva tenuto al potere per 30 anni il dittatore Hosni Mubarak. Solo più tardi Obama decise di appoggiare il faticoso processo di democratizzazione, che portò poi all’indigesta vittoria del leader dei Fratelli musulmani, Mohammed Morsi, nel 2012. Infine, la responsabilità dell’amministrazione Obama rispetto al golpe del giugno 2013 in cui Morsi fu deposto è pesante. I militari egiziani che si oppongono ferocemente ai Fratelli musulmani dipendono tuttora dagli oltre tre miliardi di dollari di aiuti americani che ricevono ogni anno e la sola minaccia di ridurli (neppure di sospenderli) sarebbe stata sufficiente per tenerli nelle loro caserme. Il “realismo” di preservare a ogni costo un regime amico ha avuto un prezzo molto alto per gli attivisti di piazza Tahrir che avevano creduto all’appassionato discorso pronunciato da Obama al Cairo nel 2009.
Arriviamo quindi all’attuale crisi in Ucraina e alle conseguenti tensioni con la Russia. Sono questi paesi dove interessi vitali sono in gioco? Molto meno per gli Stati Uniti che per l’Unione Europea, la quale ha con Mosca interessi commerciali fortissimi. Il risultato è che Obama non ha mosso un dito per la Crimea, annessa da Putin a marzo, al di là di simboliche sanzioni contro un gruppo di oligarchi putiniani. Il sostegno diplomatico offerto dagli Stati Uniti al nuovo governo di Kiev serve più ad ammansire Polonia e repubbliche baltiche che a produrre effetti tangibili per l’Ucraina. Certo, un’invasione russa in stile Budapest 1956 sarebbe un’altra faccenda, e costringerebbe Stati Uniti ed Europa a reagire con una vera rottura dei rapporti con Mosca e probabilmente l’avvio di una nuova guerra fredda. Non è chiaro, per il momento, quanti a Washington siano coscienti del fatto che le lontane origini della crisi stanno nel precipitoso allargamento della NATO verso Est degli anni Novanta, percepito a Mosca come una violazione dei patti non scritti che avevano presieduto alla caduta del muro di Berlino nel 1989 e alla dissoluzione dell’URSS nel 1991[4]. Obama, di fronte alle critiche di “debolezza” nella gestione della crisi ha dovuto rispondere: “Mi chiedo perché tutti siano così ansiosi di usare la forza militare, dopo che abbiamo appena passato un decennio in guerra, con un costo enorme per le nostre truppe e per il nostro bilancio”.
Ci sono poi altri punti di crisi aperti: soprattutto in Asia, dove Obama si è recato pochi giorni fa, con un pericoloso ritorno di fiamma del nazionalismo sia in Giappone che in Cina, che si alimenta delle tensioni attorno a un micro-arcipelago conteso fra Giappone, Cina, Filippine e Vietnam ma soprattutto di memorie di guerra mai sopite. Se Obama, com’è possibile, si ritroverà dopo le elezioni del prossimo novembre con un Congresso compattamente ostile, i margini di manovra della sua politica estera saranno drammaticamente ristretti.
[1] Remarks by the President at the Acceptance of the Nobel Peace Prize, 10 dicembre 2009. http://www.whitehouse.gov/the-press-office/remarks-president-acceptance-nobel-peace-prize
[2] Perry Anderson, “American Foreign Policy And Its Thinkers”, New Left Review n. 83, Sept/Oct 2013.
[3] John Mearsheimer, “America Unhinged”, in The National Interest, n. 129, Jan/Feb 2014.
[4] Michael Mandelbaum, Dawn of Peace in Europe, New York 1996, pp. 61-63.