Nessun frase è più gettonata, tra chi si occupa di energia, di “serve un piano energetico nazionale” (o strategia che dir si voglia). L’evoluzione del settore energetico americano rappresenta un clamoroso caso studio del contrario: ossia della sostanziale impossibilità di prevedere, e dunque di pianificare saggiamente, un settore così magmatico e in costante evoluzione, tecnologica e non solo.
Sembrano passati secoli da quando George W. Bush, replicando stancamente le promesse dei suoi predecessori da Richard Nixon (almeno) in poi, prometteva di mettere le briglie alla dipendenza dal petrolio straniero. All’epoca appariva una chimera: tant’è che l’impegno bushiano si tradusse in un sostegno incondizionato e generosissimo ai biocarburanti, cioè alle constituency dei potenti Stati agrari. Lo stesso Barack Obama ha fatto proprio il medesimo impegno, naturalmente declinandolo in termini più vicini alla sensibilità democratica: lo slogan dell’indipendenza energetica cedeva il posto a quello della lotta al cambiamento del clima, i sussidi ai biofuel a fonti rinnovabili che nell’immaginario appaiono “di sinistra”, quali solare ed eolico. Sogni di gloria seppelliti dal fallimento di Solyndra, il produttore fotovoltaico portato dalla Casa Bianca a esempio del connubio tra competitività economica e sostenibilità ambientali.
Per parafrasare Francesco Guccini, però, mentre tutto questo accadeva un’altra grande forza spiegava allora le sue ali: la silenziosa ma sempre più dirompente rivoluzione degli idrocarburi non convenzionali. La fame di risorse, la peculiare regolamentazione americana che attribuisce la proprietà del sottosuolo non allo Stato ma a chi possiede il terreno soprastante, e lo sviluppo di tecnologie quali la fratturazione idraulica e la perforazione orizzontale hanno messo in moto una dinamica che oggi appare ormai chiarissima. L’avanzata del gas in particolare – grazie ai bassi prezzi e all’abbondante offerta imposti dallo shale – ha spazzato via dal panorama energetico americano tanto il carbone caro ai Repubblicani quanto il fotovoltaico democratico, il nucleare che piace all’Elefantino così come l’eolico che accende il cuore dell’Asinello.
Un dato impressionante è quello sul “pensionamento” degli impianti a carbone, tradizionalmente l’ossatura del sistema elettrico americano: nel volgere di un anno, la potenza complessiva che è prevista uscire dalla produzione è cresciuta da circa 40 a circa 60 GW al 2020. Il dato che singolarmente colpisce di più è quello relativo al tasso di utilizzo della capacità esistente: appena 56%.
L’altro “scarto” che immediatamente balza agli occhi è quello relativo alle importazioni, tradizionalmente bestia nera sia per la destra (che vi vede una minaccia alla sovranità nazionale) sia per la sinistra (che invece le interpreta come la prova provata del disinteresse americano per l’ambiente). Il gap tra produzione domestica e consumi, che all’inizio degli anni Duemila era di circa il 25% della domanda totale, si è oggi ridotto al 16%, ed entro il 2035 sarà sostanzialmente colmato, scendendo attorno al 3-4%. La sostanziale autosufficienza energetica (in termini netti, cioè sommando algebricamente import ed export) non è stata raggiunta né col dirigismo repubblican-nazionalista di Bush né con quello democratico-ambientalista di Obama. È a portata di mano semplicemente perché tecnologia e mercato – cioè, in ultima analisi, la convenienza economica – lo hanno reso possibile. Con grande scorno dei teorici del peak oil, secondo cui la produzione americana avrebbe dovuto avviarsi verso un rapido esaurimento, la tendenza punta decisamente nella direzione opposta: la produzione di idrocarburi è destinata a crescere impetuosamente. Se le rinnovabili, a fronte di una domanda crescente, resteranno sostanzialmente stabili ai livelli attuali (si prevede passino dall’11% del 2012 al 12% nel 2040), il metano vivrà invece un periodo di boom, passando dal 31% al 38%, il petrolio terrà botta (petrolio nei paesi industrializzati è essenzialmente sinonimo di mobilità) calando dal 22 al 20%, mentre nucleare e carbone andranno in deciso calo, passando rispettivamente dal 10 all’8% e dal 26 al 22% del consumo totale.
I dati, in particolare dell’ufficio statistico del dipartimento per l’Energia, mostrano chiaramente come la produzione di gas, soprattutto, sia trainata proprio dalle risorse non convenzionali.
Una rilevante conseguenza di questo fenomeno è che sta cambiando la “testa” americana. Se il dibattito pubblico fino a pochi anni fa era dominato dal tema delle importazioni, e di come ridurle, oggi si fa strada il pensiero opposto: ossia se non valga la pena valorizzare questa immensa produzione attraverso l’export. Infatti i produttori americani – che stanno soffrendo per i bassi prezzi determinati dall’eccesso di offerta – vorrebbero (e potrebbero) trarre immenso vantaggio dai prezzi ben più alti che si riscontrano su altri mercati, come quelli europeo, asiatico e giapponese, dove il gas naturale viene scambiato a prezzi tra le due e le tre volte superiori. Naturalmente ciò fa storcere il naso ai grandi consumatori USA di energia, i quali vivono l’attuale bonanza come una sorta di sussidio non dichiarato. Inoltre la regolamentazione americana è pensata per inibire le esportazioni, anche se le cose stanno cambiando: pragmaticamente, si troverà un accordo tale da liberare almeno una parte di queste gigantesche risorse.
L’Europa potrebbe beneficiarne grandemente, se l’energia (e il gas in particolare) fosse pienamente inclusa nel trattato di libero scambio transatlantico attualmente in discussione. In primo luogo, una maggiore disponibilità di gas sui mercati internazionali potrebbe far scendere i prezzi anche nel vecchio continente, un tema di non secondaria importanza in una regione che comunque vive con insofferenza l’attuale dipendenza da fornitori instabili o non del tutto affidabili (la crisi in corso in Ucraina ha reso nuovamente di attualità questo tema). In secondo luogo, uno degli effetti non intenzionali della shale revolution negli Stati Uniti è stato quello di abbattere i prezzi del carbone, rendendolo più conveniente proprio in Europa. Col paradosso che l’”ambientalista” Unione Europea soffre oggi molto di più per la tentazione del carbone che non gli USA. Maggiori importazioni, rese possibili dalla diffusione dei terminali di rigassificazione nell’UE, potrebbero controbilanciare questo fenomeno.
Tornando al punto di partenza: nessun pianificatore, illuminato o no, ha previsto (o avrebbe potuto prevedere) questa evoluzione, che ha consentito agli Stati Uniti di avere energia più accessibile, più economica e più pulita. Anche nel settore energetico vale il monito di Amleto: ci son più cose tra cielo e terra…