Questo articolo, il primo di due, propone dei criteri per orientarsi sui temi caldi che ciclicamente dall’Africa irrompono sulla scena politica (e mediatica). Spesso infatti mancano, agli osservatori esterni, gli strumenti per comprendere e analizzare quanto le cronache riportano.
L’anno appena concluso è stato ricco di eventi importanti, alcuni dei quali altamente simbolici (si pensi alla scomparsa di Nelson Mandela), mentre l’anno in corso – tra conflitti, tensioni latenti, transizioni e tornate elettorali – presenta alcuni rebus e ipotesi geopolitiche anche inedite.
L’ultima crisi, quella esplosa nel dicembre 2013 nella Repubblica Centrafricana, ci conferma anzitutto che l’Africa vista dall’Occidente è davvero simile – rifacendosi a una banale retorica – alla punta di un iceberg del quale ci si accorge sempre tardi e in condizioni d’emergenza.
In questo 2014, il Sudafrica è orfano di Nelson Mandela. Anche se lo storico leader aveva lasciato la politica attiva da anni, la domanda è tanto cruda quanto pertinente: sarà efficace l’icona Mandela per affrontare le sfide che aspettano il Sudafrica? Lo scopriremo alle prossime elezioni presidenziali di maggio quando una generazione nera nata dopo l’apartheid voterà probabilmente contro il partito di Mandela, l’African National Congress (al potere ininterrottamente dal 1994). Il 25% di disoccupazione giovanile, la corruzione estesa e le diseguaglianze economiche stanno ormai provocando nel tessuto sociale sudafricano gravi fratture, a malapena mascherate dall’enfasi di onoranze funebri svoltesi sotto gli occhi commossi del mondo.
Intanto, dai vicini Zimbabwe e Congo in perenne crisi economica e di stabilità, sono affluiti in Sudafrica nel corso degli ultimi anni molti immigrati nei confronti dei quali ci sono state violenze, discriminazioni e intolleranza diffusa. Assistiamo quindi all’apparente paradosso per cui Mandela, l’icona mondiale della lotta al razzismo e all’esclusione, rappresenti per le società occidentali un valore assoluto e trans-nazionale assai diverso da quello percepito nella galassia etnica della nigrizia subsahariana.
Nelson Mandela rappresenta in qualche modo il necessario passaggio dal passato al futuro dell’Africa: il fattore decisivo per ogni valutazione sul continente è quello che potremmo definire il rovesciamento del paradigma coloniale. Vantando rapporti strettissimi con 50 Stati africani su 54, la Cina è ormai di fatto il principale azionista del Continente e ha soppiantato, anche se in misura diversa da nazione a nazione, il ruolo delle vecchie potenze europee: Gran Bretagna e Francia in prima fila.
Con un’azione sistematica e a pieno raggio d’azione – alternando nell’ultimo lustro l’impiego di risorse finanziare, fitta azione diplomatica e una buona dose di spirito d’avventura – Pechino è divenuta nel linguaggio ufficiale il primo partner commerciale dell’Africa e nel linguaggio dei rapporti di forza il dominus del Continente.
È vero che Barack Obama ha più volte rilanciato il ruolo degli USA sullo scacchiere africano, com’è vero che i BRICS (con la “S” che stava naturalmente per Sudafrica) si sono dati obiettivi ambiziosi con l’ultima conferenza di Durban (marzo 2013). Ma è ancora più certo che ai propositi e ai piani teorici la Cina ha riposto sempre con accordi commerciali operativi nell’immediato, con infrastrutture, ottenendo il controllo degli idrocarburi e delle miniere di diamanti (divenendo il primo produttore al mondo di diamanti 18 mesi dopo il suo ingresso nel mercato). E potendosi politicamente anche concedere, a differenza dell’Occidente, quella neutralità verso regimi illiberali o islamizzati che tanto facilita gli affari.
Va riconosciuto che la Cina si comporta come potenza di riferimento anche in altri ambiti; forse solo per compensare una politica sempre più espansiva e spregiudicata, Pechino ha lanciato programmi sanitari ed educativi in molti paesi africani. E’ il segnale che il rovesciamento del paradigma coloniale non è frutto d’improvvisazione ma di pianificazione, e si sostiene su numeri forti: 20 miliardi di dollari già dati in prestito agli Stati africani e interscambi commerciali per oltre 160 miliardi di dollari l’anno. Pechino, che ha le sue roccaforti ormai consolidate in Angola, Sudafrica, Sudan, Nigeria ed Egitto, intende insomma consolidare la propria leadership sul continente.
Solo la Francia – come la guerra in Mali del 2013 ha chiaramente indicato – sembra voler rivendicare lo storico ruolo di ex potenza coloniale. L’ultimo capitolo delle vicende della cosiddetta Françafrique risale al 3 dicembre, quando in Repubblica Centrafricana, dato il rischio di guerra civile e “genocidio“ imminente, l’ONU ha concesso a Parigi l’invio di truppe per stabilizzare la situazione. Così la Francia negli ultimi tre anni è intervenuta con le sue forze in Costa d’Avorio, Libia, Mali, e appunto a Bangui dove pochi giorni fa si è insediato il nuovo presidente ad interim: Catherine Samba-Panza.
Le ragioni umanitarie che valgono per la piccola Repubblica Centrafricana avrebbero, tuttavia, dovuto valere anche per un’altra ex-colonia di Parigi, assai più vasta e probabilmente più a rischio di massacri: il Sud Sudan. Ma la citata Françafrique è una categoria assai difficile da comprendere coi criteri della ragione; si basa infatti sulla Realpolitik tanto che oltralpe è ormai d’uso comune il gioco di parole france à fric (fric, nel linguaggio quotidiano, sono i soldi contanti, cash). Insomma, Parigi tenta nel suo piccolo quello che a Pechino riesce in grande, ma può comunque vantare attualmente tre presidenti “amici”: in Costa D’avorio, in Mali e in Repubblica Centrafricana, nell’attesa (o nella speranza) che si stabilizzino Libia e Corno d’Africa.
Il Sud Sudan ha guadagnato i titoli dei giornali nel dicembre scorso, quando lo scontro tra i due uomini forti di Juba, il presidente Salva Kiir e l’ex vice Riek Machar, ha dato voce ai kalashnikov. Ma la rivalità tra i due eroi della guerra d’indipendenza è ovviamente concorrenza per il controllo di una regione ricca di giacimenti: si può quindi stare certi che ritroveremo in scena altri attori internazionali, a seconda dell’opzione che alla fine prevarrà. Infatti, se la Cina da una parte vanta vecchi accordi siglati con Khartoum prima della partizione sudanese, dall’altra il progetto di un oleodotto che sfoci al confine tra Kenya e Somalia non sembra sgradito alla vecchia Europa in cerca di grandeur e profitti. Insomma, la situazione è aperta e i colloqui di pace proseguono nella Ginevra d’Africa, ossia Addis Abeba.
Il 2014 sarà poi un anno elettorale per diversi paesi, dal citato Sudafrica risalendo sino all’Algeria e passando per la Somalia (segnatamente nel Puntaland), e poi in ordine cronologico Guinea Bissau, Malawi, Mozambico, Botswana, Namibia, Egitto, Niger, Nigeria e Tunisia (dove da poco è stata approvata la nuova costituzione democratica); la Libia, infine voterà la sua nuova costituzione in data ancora da definirsi.
Nell’anno entrante ricorrono anche il ventesimo del genocidio ruandese, capitolo estremo di una lotta interetnica per la supremazia nella Regione dei Grandi Laghi. Una regione che, dopo i massacri del 1994, ha visto varie guerre e conflitti – e la più recente resa del movimento ribelle M23 (sostenuto da Uganda e Ruanda) alle forze congolesi (RDC). Un primato mondiale tuttavia può essere vantato proprio dal Ruanda: quello del parlamento ad assoluta maggioranza femminile uscito dalle ultime elezioni amministrative del 2013, col 64% dei deputati donna.
Nel secondo capitolo di quest’analisi (che uscirà su Aspenia online nelle prossime settimane) ci occuperemo della minaccia islamista in prospettiva Sahel, di antiterrorismo e Paesi del Golfo, guardando a due delle maggiori economie del continente, la Nigeria e il Kenya, e ad altri due paesi in fase cruciale di transizione, cioè l’Egitto e la Libia.